Riportiamo di seguito il report dell’assemblea tenutasi alla Laboratoria il 24/05.
- Intervento Napoli Monitor
I sindacati di Barcellona e Madrid stanno seguendo il caso della Sareb, una banca che con soldi pubblici e finanziamenti europei ha comprato decine di migliaia di immobili che erano di banche fallite nel 2008 e li ha poi svenduti a fondi immobiliari (Cerberus, Goldman Sacks ecc). Si tratta quindi di beni pagati con soldi pubblici che sono finiti direttamente in fondi privati. Da qui i sindacati hanno articolato una campagna di contrasto alla finanziarizzazione che si chiama “la Sareb è nostra”. Dopodiché la Sareb è fallita, in bancarotta programmata. In Italia operazioni di questo tipo sono quasi sempre gestite da Cassa depositi e prestiti e la Rev sgr, come la “bad bank” spagnola, che prende un portfolio di immobili pubblici e li svende ai grandi fondi. Questo è un meccanismo finanziario che finisce per trasformare palazzi fisici in una struttura di profitti finanziaria (una fonte di guadagno per investitori). I mutui subprime, gli affitti brevi turistici e altri strumenti stanno finanziarizzando tutti gli immobili del Sud Europa. Tra questi strumenti vi sono gli NPL (Non Performing Loan): gli Stati danno i soldi per fornire credito ai fondi e li svendono. Probabilmente Invimit è uno di questi fondi che agiscono nel mercato privato. Gli NPL sono crediti deteriorati che non producono reddito e quindi vengono messi a valore attraverso la loro svendita ad operatori finanziari.
Patto per Napoli tra Invimit (rappresentato da Draghi) e comune di Napoli. Siccome la finanza internazionale richiede un continuo apporto di fondi, liquidità e debito da parte dello Stato, la finanza si configura come la negazione del libero mercato: non funziona secondo le regole della concorrenza liberale, è la sua negazione. Tanto più cresce la finanza, quanto più decresce la produttività. Le note di debito degli Stati Uniti vengono utilizzate per dare credito alla finanza, che restituisce il debito e chiede liquidità agli Stati, creando una non corrispondenza e una negazione della creazione di valore concreta, con la continua emissione di soldi delle banche statali. Lo stato deve continuamente presentare la svendita del pubblico al privato per garantire il funzionamento di questo sistema, giustificandola con la retorica del bene comune. È il processo di depoliticizzazione delle istituzioni pubbliche attraverso il discorso dei beni, che smantella le strutture della politica antagonista.
- Intervento Ex Asilo Filangeri
Il percorso dei beni comuni napoletani nasce da un insieme di occupazioni che nel tempo hanno deciso di non limitarsi ad un solo progetto politico, ma di essere una realtà eterogenea di occupazioni che hanno liberato i beni abbandonati del tessuto metropolitano di Napoli con il fine di restituirli alla pubblica fruizione.
Si tratta di spazi autogestiti attraverso assemblee pubbliche dove chiunque può partecipare con proposte d’uso, senza controllo sui contenuti (se non di essere esplicitamente antifascita, antisessista e antirazzista).
Lo strumento giuridico per farsi riconoscere, nato dalle stesse assemblee, è stato individuato nell’uso civico e collettivo urbano. L’obiettivo era rinnovare le istituzioni per fare in modo di uscire dagli strumenti tradizionali (come le concessioni), per permettere il riconoscimento di un autogoverno di una comunità senza l’uso specifico di una realtà: di fatto lo spazio non è affidato a nessuno, l’uso è condiviso o a rotazione, senza contratto con il comune. Si tratta dunque di spazi di proprietà comunale. Serviva la dichiarazione di uso civico che traducesse le pratiche.
La dichiarazione è stata poi riconosciuta dal comune con una delibera dando la possibilità alla comunità di autogestirsi. Il comune di Napoli ha inoltre deciso di farsi carico delle utenze, della manutenzione straordinaria e altre spese che potessero supportare sperimentazioni di autogoverno che però rimanevano libere.
Da questi spazi è nata una rete che ha posto con forza il tema del debito. Napoli ha infatti un debito pubblico altissimo ed è sempre sull’orlo del dissesto e questo diventa come noto una scusa per non fornire servizi. Il movimento ha smascherato questa dinamica – raccontata come qualcosa di necessario per reagire alla crisi – provando a ripoliticizzare questo meccanismo, proponendo un percorso di partecipazione popolare che è sfociato in un Audit sul pubblico. L’obiettivo non è un controllo contabile del debito, ma un controllo politico fatto per capire come nascono i debiti e con chi vengono contratti e se vengono contratti per gli interessi generali oppure no. L’Audit si è riunito in assemblee pubbliche e ha dichiarato alcuni debiti come illegittimi. Uno dei temi principali è la questione dei derivati: contratti di finanzia derivata molto aleatori, stabiliti dal comune senza il rispetto delle forme giuridiche necessarie, per cui si era convint* che fossero illegittimi, ma stabilirlo formalmente e impugnarli diventava complesso perché bisognava rivolgersi alla corte di Londra. Anche i commissariamenti (organo statale che gestisce emergenze, come i terremoti ecc) servivano per sottrarre il controllo democratico. Non solo: i debiti contratti dal commissario straordinario erano poi nel bilancio della città. Un altro è quello dei mutui di cassa depositi e prestiti, che nasce come ente con il compito di fornire credito agevolato agli enti locali per poter fare servizi e infrastrutture nell’interesse generale. Se non che a un certo punto cassa depositi e prestiti è stata privatizzata da un 15% di fondazioni bancarie, e da allora ha iniziato a comportarsi come una SPA. Nel caso di Napoli cominciavano a concedere crediti con un tasso di interesse alto quattro volte quello di mercato. Si è fatto anche un Audit su tutti gli usi e gli impieghi del patrimonio pubblico, scoprendo che agli usi pubblici venivano date concessioni altissime, mentre a quelli privati concessioni bassissime, spesso non rese pubbliche.
Il percorso dei beni comuni ha provato a far sì che gli spazi pubblici non si limitassero ad essere proprietà pubblica, ma che fossero accessibili liberamente senza barriere economiche. Con i finanziamenti del PNRR lo Stato ha potuto stanziare soldi per città metropolitane in dissesto. Questo meccanismo prevede che lo Stato possa dare dei fondi alla città per far respirare le casse, però con accordi che vincolano i sindaci devono tagliare le spese, tagliare servizi, razionalizzare le partecipate (cioè le società pubbliche) e valorizzare il patrimonio. L’intenzione quindi non è vendere, quanto mettere a reddito, quindi cambiare la destinazione degli immobili e sottoporli alla privatizzazione con meccanismi che consentono di finanziarizzarli per pagare canoni alle casse comunali e quindi imporre barriere economiche all’utilizzo dello spazio. Il primo attacco dei beni comuni probabilmente non è di sgomberarli, ma di normalizzarli e depoliticizzarli. L’obiettivo, quindi, non è conservare i beni comuni, ma il tema che va posto con forza è il destino del patrimonio. Nel caso di Napoli il comune ha deciso di mettere immobili comuni come garanzia di debito in fondi di Invimit. La retorica delle istituzioni è che il fondo dovrebbe essere una modalità per far avere un ritorno economico alla città attraverso la finanziarizzazione. Ma la gestione dell’immobile viene cambiata e quindi si dà luogo ad una gestione privata. Non sappiamo che tipo di potere effettivamente manterrà la città sull’immobile. Audit vuole pubblicare una serie di domande su come vengono scelti gli immobili, come verranno gestiti.
- Intervento Lucha y Siesta
La casa delle donne Lucha y Siesta è un luogo di autodeterminazione delle donne. Lo stabile in cui ha sede è di proprietà Atac, la società partecipata più indebitata d’Italia. Le partecipate sono usate per incrementare i processi di finanziarizzazione. In questo caso, doveva essere venduto in quanto patrimonio di Atac per risanare il debito delle amministrazioni.
Il luogo è oggetto di una battaglia da 14 anni, che ha visto tante fasi. Non è riuscita la lotta per la sottrazione dello stabile dalla vendita, ma questo processo ha fatto sì che il bene è stato prima dismesso, poi ricomprato.
La lotta si è data in un lungo dialogo con la politica istituzionale, che è sempra stato conflittuale. È stato fatto un lavoro di ribaltamento dei rapporti di forza nel corso del tempo, principalmente provando a rovesciare l’ordine del discorso facendo riferimento alla dicotomia pubblico/privato e alla questione politico-amministrativa. Nel conflitto con le istituzioni, è stata più volte affrontata una dicotomia tra funzioni amministrative e politiche. Secondo le istituzioni e il loro discorso, alcuni atti e decisioni sarebbero impossibili da un punto di vista amministrativo. La lotta è consistita nel dimostrare che l’impossibilità amministrativa è piuttosto una maschera delle istituzioni per sottrarsi dall’azione politica.
Dall’altro canto, Lucha ha lottato per affermare che una città, per essere efficiente, non deve per forza svendere, ma può “ripubblicizzare”, provando a forzare dunque il significato di efficienza. Al contempo, ha provato ad immaginare un processo che trasformi le istituzioni riconoscendo le comunità che vivono gli spazi: aprire dunque un pubblico che dia la possibilità di riconoscimento davvero per tutt*.
Al momento stanno lavorando alla costruzione di un “patto di collaborazione”, che dovrebbe mettere insieme diverse norme in una singola norma: comodato d’uso gratuito per lo spazio, legge 4 sul contrasto alla violenza di genere della Regione Lazio, ed altre. Si vuole provare a proporre delle norme in un processo dal basso, e più ampio anche delle mura di Lucha. Il tentativo è quello di produrre una trasformazione che non ci riduca a uno spazio da valorizzare. Si ritiene che per rompere questa concezione del pubblico sia necessario sottrarsi dalla messa a valore e dal linguaggio della quantificazione. Per questo fine, ogni mezzo necessario è concesso, e si possono diversificare le pratiche. Al contempo, si deve produrre conflitto necessario a valorizzare esperienze.
Dall’esperienza della lotta per le mura di Lucha e Siesta, se ne ricava quanto sia cruciale rompere la dicotomia tra amministrazione e politica per avere agibilità di azione che produca delle trasformazioni durature: la logica dell’amministrazione è quella di riprodurre gli equilibri tramite presunti automatismi, e nascondere dunque la decisionalità e le possibilità di cambiamento.
Bisogna affermare con forza che gli spazi che rendono vivibili le città lo fanno perché altrimenti le città non sarebbero vivibili per alcune soggettività. Questo ci dà un credito. Per questo, bisogna superare la logica di inclusività universalistico-astratta: dire liberare spazi vuol dire farlo per alcune soggettività. E nel discorso pubblico, il grimaldello dev’essere quello di affermare che si parte da una situazione di credito. Al contempo, la prospettiva dev’essere di armare battaglie sorelle.
Il prossimo appuntamento è il 25 giugno: assemblea pubblica.
ESC è uno spazio sociale vittima di debito illegittimo. La sua vicenda è emblematica del debito pubblico a Roma. Oggi, si è arrivati ad un’ingiunzione di pagamento di 220.000 euro.
La svolta nella storia del debito pubblico romano si ha nel 2015, con la delibera 140. Sull’onda lunga della crisi del 2008, si parla del trasferimento del debito privato al debito pubblico nazionale e locale. Roma è travolta dal commissariamento e dal tema dell’insostenibilità del debito cittadino. Il trasferimento del debito è stato il grimaldello per le politiche di austerity e attacco al patrimonio cittadino.
Anni prima, la delibera 26 del 1995 stabilisce dei criteri per dare in concessione immobili del comune ad attività sociali. Ciò ha permesso proliferazione di spazi sociali e occupati, che hanno ottenuto strumento di riconoscimento. Nel 2016 si inverte completamente la rotta. Il tessuto di laboratori politici e spazi sociali romano è stato attaccato con lo strumento di debito e danno erariale. Gli affitti sono stati riconteggiati al 100% del mercato; il patrimonio pubblico ha iniziato quindi a funzionare con logica del privato.
Ponendosi sulla stessa linea di Lucha y Siesta, lo slogan è stato: “Abbiamo crediti, non debiti”. Vuol dire che spazi come ESC hanno una funzione sociale determinante, e al contempo disconosciuta.
Nel frattempo, si stanno affermando altre logiche: funzionalizzazione della libera iniziativa civica, autogestione e autogoverno inserite nella macchina di produzione cittadina. Svuotarle dalla loro autonomia a capacità di agire liberamente [?].
Il dibattito sui beni comuni è stato centrale in un precedente periodo di mobilitazione. Oggi similmente è necessario rimettere al centro del dibattito e delle rivendicazioni la funzione sociale della proprietà privata: il privato deve avere un limite e una regola per la sua attività, in base ad un’idea di funzione sociale. Il patrimonio è una leva democratica di autogoverno che non può essere cancellata se non con danni gravissimi.
Oggi siamo in una fase complessa, ed è difficile fare proposte. Nella nuova fase post pandemica del PNRR dirottato sul terreno bellico, il tema dei Beni comuni può essere centrale come campo di conflitto. Ovvero, come terreno di continua negoziazione tra autonomia, riappropriazione per l’autogestione. Al contempo, è terreno di scontro sul concetto di valutazione dell’impatto sociale. In questo senso si gioca, come detto, sulla negoziazione dei concetti di “credito” e “debito”: ciò vuol dire che siamo realtà produttive sui territori ma non da un punto di vista direttamente economico. Il punto è che la logica del profitto finanziario non può cogliere questa produttività. Nella capacità di immaginare e praticare questo terreno di conflitto sta la possibilità stessa della vita democratica nel nostro paese.
L’esperienza di Scup nasce in Via Noala 5 ed è costellata di sgomberi, l’ultimo dei quali nel 2015. Il bene pubblico in via Nola, una volta sgomberato, è stato venduto ad un privato, e lo spazio è stato smantellato.
È stato successivamente occupato uno spazio di proprietà di RFI, sempre nel quartiere Appio latino, in via della Stazione tuscolana. Una volta occupato, si è ottenuta la rimozione dell’amianto e il comodato d’uso. Sono state inoltre promosse numerose attività: una palestra popolare, incentivato eventi culturali, ecc.
Nonostante tutto questo, è stata ricevuta una lettera di restituzione dello spazio entro il 30 ottobre. A quel punto si è aperta una trattativa con l’amministrazione pubblica, la Regione e RFI che è il proprietario dello spazio, e in generale di tutta l’area. Questo spazio quindi è privato e parte di un progetto che si chiama reinventig cities. È stato aperto un bando, definito partecipativo: di fatto però la cittadinanza non è stata effettivamente consultata. Il progetto si estende su 5 mila ettari in cui saranno costruiti palazzi; è previsto solo cemento, e nessuna attività sociale per gli abitanti del quartiere. La trattativa sullo spazio di Scup è partita bene, il Comune e la Regione sono sembrate partecipative. A RFI interessa solo vendere tutta l’area, Scup propone un modello di progettazione diverso.
Si vuole rilanciare ed estendere la moblitazione oltre il piano della trattativa, riportando all’opinione pubblica la situazione. Si propone dunque una mobilitazione generale al patrimonio, che si terrà tra il 15 e il 20 giungo. Inoltre, si tiene un incontro martedì 31 alle 18 a Scup con molte altre realtà realtà. Cercheremo poi di allargare la mobilitazione ad altri spazi sociali che sono nella stessa situazione. Si vorrebbe portare la causa in piazza per non farla vivere solo nel nostro giro, per cercare di portare all’opinione pubblica quello che sta succedendo in un quartiere che vive una degenerazione. Noi sappiamo che le proposte del quartiere per il quartiere sono Asl, spazi verdi, posti per anzian*; poco di questo sta nel progetto di reinventig cities.
Communia appartiene al privato. Però il patrimonio pubblico di cui facciamo parte è quello della città. Perché Communia è entrato nel progetto di rivalutazione della città del quartiere di San Lorenzo: un quartiere abbandonato per molti anni, che è tornato sotto i riflettori con il dramma di Desire. Si parlava del forum che ha fatto Scup per chiedere ai residenti cosa ci andasse fatto nel quartiere. La risposta è stata la stessa a San Lorenzo: costruire una città pubblica.
Quello che è accaduto a Communia è che i fondi di finanza internazionale, attraverso delle partecipate, si sono impossessate dei lotti di via dei Lucani. Siamo entrati in trattativa con la città per difendere la possibilità di esistenza di Communia, e per attaccare l’incapacità della gestione amministrativa.
Cruciale per la trasformazione di via dei Lucani è che c’è stato un cambio nell’amministrazione. Prima si proponeva un parco, perché san Lorenzo è privo di parchi. Poi l’amministrazione successiva ha cambiato progetto: ha provato a costruirci un parcheggio privato. Il cambio di amministrazione ha dunque dato la possibilità di inserirsi i proprietari all’interno della progettazione. Ha quindi aperto la possibilità ai fondi di finanza internazionale (nel nostro caso il fondo internazionale Cerberus) di entrare all’interno della speculazione urbana.
Quello che noi stiamo cercando di fare è di far valere il dovere pubblico sulla città. Ribadire la legge del ’68 104 che prevede che il soggetto pubblico debba garantire dei servizi all’interno della città e trovare gli spazi per garantirli. Denunciamo la carenza di servizi, e il dovere del pubblico di garantirli. Stiamo quindi facendo una trattativa per cercare di togliere il privato dal pubblico.
- Intervento L.E.A. Berta Càceres
Caffarella 13 è sintomo del rapporto malato che c’è a Roma tra proprietà fondiaria, imprese costruttrici e amministrazione comunale e regionale a Roma. La villetta occupata si inserisce all’interno di un’operazione di lottizzazione e costruzione abusiva all’interno di un’area protetta da numerosi vincoli. Ovviamente si tratta di un abusivismo di lusso, e non dettato dalla necessità di avere sopra di sé un tetto.
Roma è una città con molto patrimonio pubblico, ma in cui molti enti, istituzioni e uffici pubblici sono in affitto da grandi famiglie di costruttori. Questo è indicativo dell’uso che a Roma si intende fare del patrimonio pubblico, e dei favori invece che vengono fatte alle famiglie proprietarie con soldi pubblici. Su questo ha fatto un inchiesto Francesco Erbani nel 2013.
Appare chiaro, dunque, come in un mondo e in una città in cui gli spazi pubblici stanno materialmente scomparendo, sia proprio l’intero concetto di pubblico ad correre il grave pericolo di essere considerato sconveniente e desueto in futuro non lontano. Dunque la lotta per non vendere gli spazi è la lotta per riaffermare il potere sulle nostre vite.
Invimit: società che gestisce i fondi immobiliari pubblici nei quali ci sono immobili distribuiti in tutta Italia. È una società di propietà del MEF. I fondi immobiliari vengono creati, a livello teorico, per ridurre il debito pubblico. In sostanza, nello specifico, la regione svende immobili per ottenere subito denaro e apparare debito. Il fondo all’interno del quale si trova via della caffarella 13 si chiama i3 regione Lazio. La problematica che abbiamo riscontrato risiede nel fatto che INVIMIT gestisce e la regione Lazio è proprietaria al 70% del fondo i3, dunque: chi prende le decisioni immobili che si trovano all’interno del fondo? La società che gestisce il fondo? (INVIMIT) o l’ente che è proprietaria del fondo stesso? (LA REGIONE).
La regione non ha dato risposte in merito e il regolamento (all’interno del quale sono contenute queste risposte) non è pubblico. È partita la richiesta degli atti per poterlo visionare e siamo in attesa di una risposta.
30/05: iniziativa sull’abitare del comune, senza coinvolgere movimento ma sì Assoimmobiliare.