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SANZIONIAMO IL LUSSO!

Stamattina abbiamo occupato e sanzionato il terminal dei jet privati di Ciampino, luogo di ingiustizia sociale e climatica.

Il 35% dei voli di Ciampino su base settimanale sono jet privati con un impatto ecologico e acustico pesantissimo in tutto il quadrante sudest di Roma.

In Europa il 50% della Co2 emessa dall’aviazione è da attribuire all’1% più ricco della popolazione che si sposta su jet privati. Un volo su 5 è costituito da tratte inferiori a 30 min di durata, dei quali il 70 % sono viaggi di piacere.

In Italia in un anno è stata calcolato che i jet privati emettono tanta Co2 quanta quella prodotta da quasi 20.000 persone che si spostano in auto, aerei di linea e mezzi pubblici.

Questo è insostenibile da ogni punto di vista: sociale, ecologico, umano. Un disastro sistemico di cui l’élite economica e politica di questo paese è responsabile e mandante.

 

Oggi finisce la COP27 (La Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici) in Egitto, uno strumento governativo strutturalmente inefficace e dannoso. Un vertice dominato da sponsor come Coca Cola e da lobby del fossile prostrate a difendere un sistema estrattivista e sfruttatore che sta portando il pianeta al collasso ecosistemico.

Quest’anno il vertice è ospitato da un paese governato da un dittatore che reprime in modo violento qualunque dissenso o conflitto, colluso con i governi occidentali. Come se non bastasse i potenti del mondo sono giunti a Sharm El Sheikh per parlare di crisi ecologica su circa 400 jet privati che emettono la stessa CO2 di 15.000 europei in un anno.

 

A questo vertice e al suo fallimento strutturale opponiamo un modello di affrontare la crisi climatica che sia alternativo e antagonista al modello Cop: una rivoluzione ecologista costruita dal basso, intrecciata indissolubilmente con una lotta di classe quanto mai necessaria per far fronte al carovita prodotto dalle crisi.  Agiamo affinché i sanzionamenti si moltiplichino, si replichino e si diversifichino, e perché “Sanzioniamo il lusso” diventi una pratica diffusa di lotta.

“Sanzioniamo il lusso” intende esplicitare la dinamica estrattivista e colonialista che regge gli stili di vita delle classi agiate dei Nord Globali e per questo non rimarremo a guardare nonostante la tendenza politica repressiva e autoritaria confermata dal nuovo governo.

SEMINIAMO CONFLITTI PERCHÉ FINE DEL MONDO E FINE DEL MESE SONO LA STESSA LOTTA

ROMA CLIMATE STRIKE

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RUTTO SUL LUSSO!

Nelle ultime mattine qua a Roma ricchi, riccastri e padroncini hanno avuto un risveglio meno comodo del solito.

Uno spettro si aggira per la città, si è intrufolato nei luoghi del lusso cittadino, nei quartieri alti in cui mai mettiamo piede, nelle Università private vicine a Confindustria, e gli ha mostrato tutta la loro bruttezza.

Sanzioniamo il lusso!

Sulla scia delle molte azioni portate avanti dal movimento in Europa, dallo sgonfiamento dei Suv, al blocco dei Jet privati, Roma si attiva nel sanzionare il lusso e nel metterlo a critica come modo di vita insostenibile per il pianeta e per i popoli. Davanti le immagini dei disastri climatici che hanno colpito il Pakistan, l’Indonesia, che hanno creato la siccità in Piemonte, e devastato le foreste delle Dolomiti, il lusso e lo sfoggio spudorato della ricchezza appaiono insopportabili e nel loro lato predatorio e mortifero.

Dai negozi di alta moda del centro, ai macchinoni di lusso responsabili di enormi emissioni di CO2, dalla Università privata Luiss in mano alle elite economiche della città, alle grandi banche di investimento privato che finanziano le aziende del fossile, appare una Roma solo per pochi che alimenta lo sfruttamento sul lavoro, ci ruba lo spazio vitale, e sottrae risorse ai popoli e alle terre del Sud globale, portando il pianeta alla crisi ecosistemica.

Di tutto questo ne abbiamo abbastanza. Saremo noi il vostro rischio d’impresa. Saremo noi a bloccare e ad impedire che le vostre vite di lusso portino al collasso il pianeta.

VOSTRO IL LUSSO NOSTRO IL COLLASSO
FINE DEL MONDO, FINE DEL MESE, STESSA LOTTA

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#Makethempay, è arrivato il momento.

Sanziona il lusso!

Attivist3 ecologist3 di tutto il continente stanno rimettendo al centro della lotta al collasso ecosistemico l’ingiustizia sociale di questa crisi. Ci uniamo ai tanti sanzionamenti al lusso che stanno invadendo luoghi simbolo dell’assurdità dei consumi dell’1% della popolazione mondiale, luoghi simbolo di uno stile di vita che mangia le risorse di tutt3.

#Eattherich! Questo hanno detto ad Amsterdam le centinaia di attivist3 che hanno bloccato la partenza dei jet privati nell’aeroporto Olandese o successivamente durante un blocco a Milano Linate.

Mentre nell’estate più fresca dei prossimi anni la siccità affliggeva il nostro continente e l’acqua veniva razionata, alcuni campi da golf francesi sono stati lo scenario di un altro sanzionamento: durante la notte sono state cementate le buche per reclamare l’insopportabile spreco d’acqua riservato allo sport di pochi.

E in questo autunno, in cui il caro vita opprime le esistenze di molte persone, è approdata in Italia la pratica dello sgonfiamento delle ruote dei Suv che il collettivo SuVversivə ha indirizzato agli abitanti dei quartieri bene di Torino ispirandosi ai Tyre Extinguishers del nord Europa.

È stato chiaro anche a Napoli che non è più accettabile la disuguaglianza sociale i cui simboli sono esposti nelle vetrine dello shopping di lusso che l3 compagn3 in corteo GKN, Disoccupati 7 novembre e Laboratorio Iskra hanno sanzionato lo scorso 5 novembre.

Ci meritiamo una vita bella, come dicono l3 student3 di Bologna, che qualche giorno fa hanno sanzionato SAPORI&DINTORNI.

È arrivato il momento che siano loro a pagare e di riappropriarci di quello che spetta a tutt3.

FINE DEL MONDO, FINE DEL MESE, STESSA LOTTA

Amsterdam
Milano Linate
Campi da golf francesi
Tyre extinguishers
Napoli
Bologna

 

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Tutt3 odiano la Cop, tranne i potenti.

Non deleghiamo il nostro futuro: rivoltiamoci contro il presente!

Da una settimana è in corso la ventisettesima Conferenza delle parti (Cop 27), che quest’anno si tiene a Sharm el-Sheikh, in Egitto. Fin dalla loro creazione, le Cop si sono configuarate come i principali strumenti internazionali di gestione dall’alto dei cambiamenti climatici e della crisi ecologica, dove governi, organizzazioni e rappresentanti delle imprese si incontrano per fare un punto sul proseguire della crisi.

Come da anni i movimenti ecologisti e sociali sostengono, però, ciò che dovrebbe rappresentare la soluzione, è invece buona parte del problema.

In questa edizione è particolarmente evidente come il modello Cop, e in generale la gestione nazionale e internazionale della crisi climatica, proceda strutturalmente astraendo la giustizia climatica da quella sociale, attraverso un’abile operazione di greenwashing. Non a caso è stato scelto l’Egitto come paese ospitante: il regime di Al-Sisi garantisce a governi e multinazionali riuniti nei resort affacciati sul Mar Rosso di discutere su come tutelare al meglio i propri profitti. Il governo egiziano, al contempo, impone al paese una violentissima repressione del dissenso politico, come più volte denunciato da attivistə locali e non. L‘uso costante della tortura fisica e psicologica nelle carceri, delle sparizioni e della violenza poliziesca, garantisce alle multinazionali di guadagnare indisturbate miliardi nel territorio egiziano, come fa Eni nel giacimento di Zohr.

Protesta a Sharm el-Sheikh con fazzoletto alla bocca per rimarcare l’impossibilità di parola imposta con la violenza dal governo egiziano
La gestione della crisi climatica, nella transizione dall’alto decantata dai potenti, va di pari passo con la repressione delle più basiche libertà individuali e collettive e dei diritti umani. E non è solo il caso dell’Egitto: anche in Italia si procede a passo spedito verso una gestione sempre più brutale delle tensioni sociali, inasprendo le pene e continuando ad applicare regimi detentivi di tortura come il 41 bis.
In linea con questo, la presenza di Meloni alla Cop27 non sta facendo altro che consolidare una strategia già largamente utilizzata: i politici, infatti, si arrogano la legittimità di creare un immaginario e una retorica per la quale si fanno fintamente carico della crisi ecologica, pretendendosi completamente slegati -e spesso in controtendenza- dagli interventi che operano sulla realtà tragica della crisi ecologica, verso la quale agiscono invece in modo repressivo e tutelante dello status quo. E’ così, quindi, che Meloni millanta una riduzione del 55% delle emissioni italiane entro il 2030, mentre tra i primi atti del nuovo governo c’è stata l’abolizione del divieto di estrazione offshore entro le 12 miglia marine.

Questa concezione di ecologismo classista, coloniale e nemico della giustizia sociale ha i piedi d’argilla e le ore contate.

E’ evidente, infatti, come le Cop utilizzino degli strumenti di risoluzione della crisi strutturalmente inefficaci, o meglio peggiorativi. La logica di governo della crisi climatica ripropone gli elementi che storicamente l’hanno generata: la finanza è lo strumento principale, in quanto vengono utilizzati diffusamente meccanismi di disincentivo economico e compravendita delle emissioni.

Esempio di questo è il modello proposto dagli Stati Uniti in questa Cop, l’Energy Transition Accelerator. Si tratta di un accordo in cui, con la stretta collaborazione delle fondazioni (la Rockefeller Foundation e il Bezos Earth Fund) gestite da due tra le più aggressive multinazionali estrattiviste, si permetterebbe al capitalismo fossile di continuare a devastare ed inquinare il globo in cambio di progetti “sostenibili” nei paesi del sud del mondo, progetti che fin troppo spesso si sono rivelati semplicemente l’ultima frontiera coloniale della green economy.

In questo modo, si continua a porre la finanza come principale strumento di governo della crisi climatica (e la polizia a tutela del suo meccanismo), riproponendo la grottesca idea della sua bontà intrinseca che secoli di crisi cicliche e ingiustizie hanno semplicemente sbugiardato.

L‘onnipotenza del mercato, la difesa violenta della sua logica, la concentrazione dei capitali sono generatori e garanti delle crisi che stiamo vivendo oggi. Emblematica della ristrettezza di vedute, del classismo e, in ultima analisi, dell’ ipocrisia del sistema Cop, è l’enorme mole di inquinanti emessa dai lussuosi jet privati su cui viaggiano le delegazioni dei vari paesi.
Le Cop rappresentano un tentativo disperato di conservazione da parte di una classe dirigente che costituisce una nuova aristocrazia mondiale. A fronte di questo, abbiamo bisogno di agire e portare avanti un cambiamento radicale. Un cambiamento di questo tipo non può avvenire delegando alle élite il governo della crisi climatica ma, al contrario, delegittimando, sabotando e distruggendo questa élite e i suoi profitti.

L’alternativa radicale, veramente collettiva e dal basso al sistema Cop sta nei corpi di chi si ribella. Non c’è più aria per le chiacchiere!

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Contro 41bis e ogni forma di tortura, a fianco dell3 compagn3 in sciopero della fame

12 novembre, ore 15:00 a piazza Gioacchino Belli a Roma, manifestazione contro il 41bis e l’ergastolo ostativo, a fianco dell3 compagn3 in sciopero della fame nelle carceri.

Dal 20 ottobre un compagno anarchico, Alfredo Cospito, ha iniziato uno sciopero della fame contro il regime di 41bis a cui è sottoposto nel carcere di Sassari. Alfredo, condannato a 20 anni di reclusione a seguito del processo Scripta Manent, reo di aver scritto dei comunicati, viene sottoposto al 41bis per la colpa di aver continuato a mantenere rapporti epistolari dal carcere con il movimento anarchico. Il 20 ottobre, durante l’udienza del processo, collegato da remoto, Alfredo ha tentato di portare avanti, senza riuscirci, le dichiarazioni di apertura dello sciopero della fame, a cui il giudice ha risposto con un semplice gesto della mano: mettendolo in muto.

Qualche giorno più tardi anche Anna, compagna anch’essa condannata nell’ambito dello stesso processo a 17 anni di reclusione, ha iniziato lo sciopero della fame contro 41bis ed ergastolo ostativo. Il 41bis è un regime di detenzione che attua forme sofisticate di tortura: deprivazione sensoriale, isolamento continuo, spegnimento di qualsiasi lucidità mentale attraverso l’interruzione dell’interazione umana ma anche di forme di lettura e scrittura.

In tutto il paese si sono verificate dimostrazioni di solidarietà e striscionate a fianco di Alfredo e Anna, ma anche Juan e Ivan, compagni anarchici anch’essi in sciopero della fame contro il 41bis, mentre anche loro subiscono pene spropositate che dimostrano, ancora una volta, l’accanimento dello stato contro i simboli e l’immaginario di chi fa appello a forme di liberazione radicali e senza compromessi.

In questo momento è in corso la Cop27 in Egitto e le grandi organizzazioni internazionali, giustamente, rivendicano che non ci può essere alcuna forma di ecologia che tolleri regimi che non rispettano i diritti umani, in sostegno agli scioperi della fame e della sete degli attivisti egiziani come Alaa Abd El Fattah. Proprio coerentemente con questa posizione, è necessario esprimersi anche e soprattutto riguardo alle forme di tortura che avvengono tutti i giorni anche sotto il proprio naso.

Esprimiamo solidarietà all3 compagn3 in sciopero della fame: il 41bis e le carceri sono tortura!

Condividiamo la lettera scritta da Anna Beniamino in sciopero della fame in carcere:

Il 20 ottobre Alfredo Cospito, nel carcere di Bancali (SS), ha iniziato uno sciopero della fame ad oltranza contro il regime 41 bis e l’ergastolo ostativo. Il regime 41 bis o.p. gli è stato riservato dal maggio di quest’anno, reo di mantenere, dalle sezioni di Alta Sicurezza dove si trovava da anni rinchiuso, rapporti epistolari ed attività editoriale con il movimento anarchico, attraverso scritti pubblici ed interventi.
L’ergastolo ostativo rischia di essere lo sbocco del rinvio in appello – operato dalla sentenza di cassazione del luglio 2022 del processo Scripta Manent – per il ricalcolo della condanna approdata alla qualifica di 285 c.p., “strage politica”, per un duplice attentato alla scuola allievi carabinieri di Fossano, a firma FAI-RAT. La condanna per 285 c.p. costituisce la chiave di volta di un’architettura accusatoria che ha sancito l’esistenza di un’ “associazione eversiva con finalità di terrorismo” (costituita da soli 3 promotori e con un’esistenza a singhiozzo, per ovviare alle contraddizioni dovute agli esiti di precedenti processi) e l’attività di “istigazione” per blog e giornali anarchici editi dai condannati nel corso degli scorsi 20 anni.
Insomma una sentenza-monstre dove si è capi/factotum di un’ “associazione” dai contorni incerti, nonché istigatori e rei di una “strage” mai avvenuta e soprattutto mai difesa in quanto tale. Ovvero, come è capitato ripetutamente di affermare in tempi non sospetti, la violenza rivoluzionaria è difesa dagli anarchici, e da me tra questi, lo stragismo no.
Ciò che le carte dei tribunali e le direttive dei Servizi e degli apparati di prevenzione chiamano variamente eversione interna o terrorismo e che viene racchiuso in una serie di reati (associazione sovversiva, strage, devastazione e saccheggio…) attinti pari pari dal Codice Rocco ancora in auge, sono in realtà tasselli della tensione rivoluzionaria e della ricerca di libertà e giustizia sociale. Che quest’ultima e la giustizia somministrata dai tribunali siano mondi antitetici non è una novità per chiunque abbia un minimo di conoscenza delle vicende storiche e politiche dei movimenti, delle idee e delle pratiche refrattarie allo status quo: più è grande e complessa l’accusa, più è difficile riportare gli eventi sul piano della realtà. Su questa falsariga ci si ritrova da imputati in processi dalle “verità” farsesche, dove è l’identità politica, non i fatti, a costruire il reato, a seppellirti vivo.
Il 41 bis è la forma più raffinata di annientamento psico-fisico, tra le varie gradazioni offerte dal carcere. Una tortura in guanti bianchi basata sulla deprivazione fisica, sensoriale e intellettiva, sulla rescissione dei vincoli amicali e sentimentali: un’ora di colloquio al mese, con vetro, con i famigliari spesso costretti a viaggi di centinaia di chilometri per effettuarli, con parenti e affetti spesso visti come sodali stessi dell’ “associazione”, con tutto quello che questo comporta in termini di allontanamenti; pesantissime limitazioni di studio e di lettura, che sole potrebbero cautelare l’individuo dallo “spegnimento” cerebrale, con una lucidità già messa alla prova dalla mancanza di confronto e socializzazione minima, in un quasi-isolamento che si prolunga per anni, spesso a vita; quotidiani censurati in toto o parzialmente, 10 canali televisivi e psicofarmaci come possibili “palliativi” a perfezionare il trattamento. D’altra parte tv e psicofarmaci sono le colonne portanti del mantenimento del controllo carcerario nella sua interezza: sezioni comuni sovraffollate, tonnare d’anime dove medicalizzazione e infantilizzazione dell’individuo regnano sovrane.
Al 41 bis, per la sua manifesta durezza, volta a spezzare l’individuo, gli stessi legislatori avevano conferito una durata limitata nel tempo a 4 anni (anche il waterboarding ammette pause… pena l’annegamento del malcapitato!) che poi, con un procedimento burocratico tipico della ferocia democratica a bassa intensità, di proroga in proroga, da emergenziale è diventato ordinario. Santificato dall’incultura forcaiola e manettara, il “carcere duro” è il feticcio/spauracchio di una società che si vorrebbe, secondo la vulgata mediatica, sempre più spaventata dalle “emergenze” e bisognosa di “sicurezza”, da placare con un progressivo e plateale inasprimento delle pene e ingigantimento della narrazione della portata dei reati. Il feticcio della “sicurezza” è usato per distogliere l’attenzione di una società al collasso politico, economico, sociale.
Ho condiviso anni di vita, idee, discussioni, rabbia, risate e amore per la libertà con un compagno anarchico, con gli anarchici… non saranno i regimi differenziati di una galera o le infamie di un processo certo capaci di offuscarli.
Per questi motivi, perché solidarietà e giustizia sono un cadavere in bocca ai legislatori, un fiore tra i denti di individui liberi. Perché per chi ama la vita, reagire quando viene trasformata in sopravvivenza è un atto dovuto, da lunedì 7 novembre inizio uno sciopero della fame.
Contro il 41 bis.
In solidarietà ad Alfredo in sciopero della fame dal 20 ottobre, a Juan dal carcere di Terni dal 25 ottobre e ad Ivan dal carcere di Villepinte in Francia dal 27 ottobre, che hanno intrapreso uno sciopero per gli stessi motivi.
Con amore e rispetto per tutte le compagne ed i compagni che hanno lottato, lottano e lotteranno per gli utopici sentieri della libertà e della negazione dell’autorità, senza vendere i loro sogni al miglior offerente.
Anna Beniamino

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Mobilitazioni vincenti: No Bassines a Sainte-Soline

A seguito delle mobilitazioni degli scorsi giorni contro i grandi bacini di stoccaggio idrico in Francia, che hanno visto una occupazione di massa del cantiere del bacino di Sainte-Soline da parte di più di 7mila persone, abbiamo tradotto e riassunto alcuni contributi pubblicati da Les soulèvements de la terre, per facilitare la circolazione di informazioni e il sostegno al movimento No Bassines. Buona lettura!

Con l’accelerazione del degrado delle condizioni di vita sulla Terra, un numero sempre maggiore di noi sente il peso della confusione, della rabbia e della mancanza di orizzonti. Cosa possiamo aspettarci dall’ennesimo catalogo di promesse elettorali del COP o della primavera? Solo un cambiamento radicale – una rivolta – potrebbe fermare il riscaldamento globale e la sesta estinzione di massa delle specie già in corso. In sostanza, sappiamo che oggi non c’è altro modo che mettere in campo tutte le nostre forze per fermare il disastro in corso e abbattere il sistema economico divoratore che lo sta generando.

In 18 mesi e di fronte all’assoluta urgenza che lo stato del mondo testimonia, abbiamo – a centinaia o migliaia – occupato e coltivato terre minacciate, bloccato e disarmato industrie del cemento o biotecnologiche, assaltato e smantellato mega-dighe, ostacolato cantieri e partecipato a respingere piani molto concreti di sviluppo del mercato. Siamo a un primo stadio della costruzione di un fronte di resistenza al disastro e della ripresa dei nostri mezzi di sussistenza.

A Sainte-Soline, nel Marais Poitevin, più di 8.000 oppositori delle mega-piscine si sono riuniti prima di riuscire a entrare nel cantiere del laghetti più grande del mondo, nonostante i pesanti divieti e una presenza di polizia senza precedenti. Il giorno successivo hanno scollegato una delle reti di riempimento del bacino e hanno costruito una torre di guardia prima di ulteriori azioni.

Su appello di 150 associazioni e collettivi (Bassines Non Merci, Soulèvements de la Terre, la Confédération Paysanne, la CGT, ATTAC, SUD Solidaires…), più di 8000 persone si sono riunite questo fine settimana per fermare la costruzione delle mega-bacine di Sainte-Soline, iniziata all’inizio di ottobre. Giovedì 200 personalità hanno denunciato in una tribuna il divieto di manifestare e hanno dato il loro sostegno al campo anti-bacino. Gli anti-piscine si erano accampati all’inizio della settimana nel cuore della zona vietata, in un campo prestato da un ex agricoltore irriguo che ora critica il modello delle piscine.

Agricoltori, residenti, naturalisti, funzionari eletti e attivisti per il clima hanno poi marciato insieme verso il cantiere, nonostante una presenza di polizia senza precedenti: 1.700 agenti di polizia e 6 elicotteri sono stati mobilitati per ostacolare i manifestanti, mentre da lunedì sono state emesse ordinanze di divieto di manifestazione e di circolazione per dissuadere i partecipanti.

Nonostante gli scontri e i feriti, le forze dell’ordine non hanno avuto successo: divisi in 3 cortei, bianco, rosso e verde, l3 oppositor3 sono riuscit3, nei rispettivi percorsi, a scavalcare e superare in successione le numerose linee di polizia e i blocchi stradali. La squadra rossa, vittoriosa, è riuscita a entrare nel cantiere e a piantare la sua bandiera rimuovendo i cancelli e usandoli come barricate per avanzare. Questa mobilitazione è la quarta di una serie di manifestazioni e azioni dell’ultimo anno che presuppongono collettivamente atti di disobbedienza e disarmo delle infrastrutture ecocide.

I macchinari da costruzione sono stati rimossi preventivamente venerdì e il movimento continuerà a mobilitarsi per bloccare la costruzione.

Il progetto Sainte-Soline, che rappresenta 16 ettari di terreno artificiale e 720.000 m3 di acqua privatizzata, è purtroppo solo l’inizio. Entro il 2025 potrebbero essere costruite quasi 1.000 mega-piscine se l’agroindustria continuerà a portare avanti i suoi progetti e le autorità pubbliche continueranno a sostenerli e a finanziarli fino all’80%. E questo dopo un’estate torrida che ha lasciato le falde e i fiumi in uno stato di siccità senza precedenti. L’azione di sabato è stata quindi un’emergenza per fermare questo sito di test prima che ne venissero dispiegati altri. È stato un momento cruciale nell’ascesa del movimento anti-bacino e della sua visibilità.

Domenica, un altro punto chiave di questa infrastruttura è stato preso di mira dalle migliaia di oppositori ancora presenti sul posto: le sue tubature. Il bacino di Sainte-Soline ha 6 tentacoli che pompano nella falda freatica per riempire i suoi 720 000 m³ di acqua.

Il dispositivo della prefettura è stato nuovamente sventato da questa azione e gli attivisti sono riusciti a scavare e smantellare una rete di tubi. La rete smantellata oggi pompa nella falda acquifera a livello del Bignon, un fiume che è in secca come molti altri a causa del livello di siccità e della crisi climatica. Alcune di queste condutture rischiano di occupare le reti esistenti e restano 18 km da costruire, se i lavori proseguiranno nonostante tutto.

Inoltre, sul campo è stata costruita una vedetta. Servirà come torre di osservazione per gli uccelli e per i progressi del cantiere del bacino di Sainte-Soline, situato a 2 km di distanza. Questo campo, dove il proprietario invita gli oppositori a rimanere fino al 19 maggio (quando tornerà l’otarda), potrebbe essere utilizzato nelle prossime settimane come base per un’ulteriore mobilitazione.

I media stanno cercando di creare una divisione tra i cosiddetti oppositori ambientalisti urbani e i contadini, suggerendo che non ci sono contadini nel collettivo, ma solo radicali di ultra-sinistra, ecologisti e black block. Ma questo è completamente falso, c’è certamente un’opposizione, ma è l’opposizione tra i sostenitori dell’agricoltura intensiva, dell’agroindustria e della FNSEA (il più grande sindacato agricolo francese) contro i sostenitori di un’agricoltura contadina rispettosa dell’ambiente.

Immagini: https://lessoulevementsdelaterre.org/blog/la-bataille-de-sainte-soline-en-photo

 

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La violenza dello Stato ha tante facce. Spacchiamole tutte!

Martedì 5 luglio alle 6.15 decine di guardie in borghese, con il supporto dei vigili del fuoco, sono entrate a berta, invadendo il giardino nel giro di qualche minuto.
La sola presenza fisica di una cinquantina di uomini cis bianchi e violenti, che in più erano guardie di ogni tipo (carabinieri, polizia, ros, digos, celere, vigili del fuoco ed operai), è emblematica di tutti i livelli di violenza che lo stato agisce contro gli spazi liberati, antifa, transfemministi, ecologisti ed antispecisti.
Nei primi minuti dello sgombero si sono interfacciati con le tre persone presenti al piano terra (due ragazze ed un ragazzo) chiudendole in una stanza, sequestrando loro i telefoni (nonostante le richieste di chiamare l’avvocato, rifiutate) e restituendoglieli solo dopo quella che loro definivano “operazione speciale” (ahah), ovvero la presa del terrazzo.
Di fronte alla nascita di resistenze, hanno preso le due ragazze presenti e le hanno sottoposte ad una perquisizione completa (con tanto di squat) con finalità punitiva disciplinante, senza dichiarare il motivo della perquisizione (infatti è stato perquisito solo il corpo, non borse ed altri effetti personali), e senza rilasciare alcun verbale. Non essendoci nessun provvedimento di perquisizione personale, questa si è configurata come atto illecito, un abuso con la finalità di umiliare.
Infatti, la perquisizione è avvenuta in modo volutamente arbitrario, nei confronti di sole due persone, agendo quindi la solita individuazione di quelli che vengono ritenuti i soggetti meno disciplinati che, di conseguenza, vengono isolati e colpiti.
Lo Stato ha agito con un’operazione in grande stile, con la totale complicità delle istituzioni (regione lazio in primis), le quali pensano di sgravarsi dal ruolo repressivo loro intrinseco delegando le azioni di polizia alla macchina repressiva dello stato. noi vogliamo invece riaffermare con forza che le responsabilità sono inscindibili e condivise e che stato e istituzioni, ovvero potere statale e politico, sono complici delle stesse brutture, dentro le città così come alle frontiere e nei non luoghi delle carceri.
L’obiettivo dell’operazione di martedì è stato di soffocare l’esperienza di Berta nel minore tempo e resistenza possibili. Questo dimostra che, al di là di via della Caffarella 13, lo Stato e le sue istituzioni hanno timore dei semi che stiamo spargendo e delle tempeste che nasceranno “da ogni singola goccia”.
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La rivoluzione ecologista non si sgombera – Comunicato dal corteo post sgombero

Ieri mattina (5 luglio), con un’operazione massiccia delle FDO, nella quale le istituzioni di governo sono rimaste silenti, la Laboratoria Ecologista Autogestita Berta Cáceres è stata sgomberata dai locali di via della Caffarella 13, dove aveva costruito una casa per le lotte ecologiste e uno spazio aperto al territorio.
Si tratta del secondo sgombero dallo stesso posto nel giro di cinque mesi – di cui tre passati dentro a via della Caffarella. Mesi in cui è sbocciata una realtà politica in profonda simbiosi con il luogo liberato e restituito a tutt3, sottratto alla mortifera gestione della Regione Lazio. A partire da qui, è cresciuta una sperimentazione di ipotesi di futuro e presente diversi, in contrasto con la realtà di violenza sociale e di crisi climatica che viviamo tutti i giorni nelle strade di Roma. Nell’oggi funestato da incendi, siccità, morti legati alla catastrofe climatica, violenza sui corpi non conformi, inflazione feroce, lotta senza quartiere alla povertà, questa sperimentazione non è auspicabile: è necessaria.
Per esprimere la rabbia per l’ingiustizia che questo sgombero rappresenta ieri pomeriggio abbiamo occupato le strade della città con parole, idee, passioni e coraggio. La città ha dimostrato di riconoscere l’importanza del progetto della Laboratoria partecipando e condividendone la rabbia e il cammino.
Si è partit3 dalla Regione Lazio, denunciando la pochezza politica di quell’istituzione, involucro di cemento che protegge con la violenza interessi nemici. Da lì, sfilando per le vie di Garbatella e comunicando con il quartiere ci siamo pres3 una rivincita contro il Ministero della Transizione Ecologica, che ha i seggi sporchi del nostro sangue, a partire da quello dei morti della Marmolada. Ci siamo ripres3 infine la nostra casa, i sanpietrini dell’Appia antica, bloccando con determinazione il traffico e avanzando fino all’imbocco di via della Caffarella.
Hanno tolto lo spazio fisico alla Laboratoria, ma ciò che in quello spazio è nato non si può togliere, né fermare. Le iniziative programmate per i prossimi giorni avranno luogo in altri spazi, mentre l’azione politica continuerà esattamente sugli stessi temi.
LA RIVOLUZIONE ECOLOGISTA NON SI SGOMBERA!
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Roma brucia, le istituzioni tacciono, la polizia sgombera. Berta resiste!

A due mesi dalla rioccupazione, questa mattina la Laboratoria Ecologista Transfemminista Berta Càceres, in Via della Caffarella 13, è stata sgomberata dalla polizia per ordine del Tribunale di Roma.

Questo pomeriggio alle ore 17:30 ci ritroveremo sotto la sede della Regione Lazio, responsabile politico di questo sgombero, per poi muoverci insieme, nelle strade della Garbatella, per raggiungere il Ministero della Transizione Ecologica, responsabile politico della totale incapacità di affrontare seriamente le conseguenze drammatiche e visibili della crisi climatica ed ecologica.

Come ben sapete, il 7 maggio abbiamo rioccupato via della Caffarella 13 e così abbiamo riaperto lo spazio a tutta la comunità. Da allora abbiamo organizzato decine di iniziative di ogni tipo, partecipando a mobilitazioni cittadine e nazionali e riportando la crisi ecologica al centro dell’attenzione metropolitana.

Attorno a noi tutto continua a dimostrare che abbiamo tristemente ragione: la crisi ecologica e sociale che viviamo è spaventosa. I danni all’agricoltura, le montagne prive di neve, i fiumi in secca e le temperature in drammatico aumento ci dimostrano quanto sia urgente riflettere e agire per salvare il pianeta dalla catastrofe climatica. Una crisi che non può essere più negata, basti pensare al disastro della Marmolada, e che viene capitalizzata sulla pelle delle persone che ogni giorno devono lottare per sopravvivere in questa società. 

Liberando Villa Greco abbiamo anche riaperto il problema politico della gestione del patrimonio pubblico cittadino, di quale sia la visione di esso che ne hanno le istituzioni e di quale progettualità ci possa essere a riguardo. Occupare Villa Greco è stato fatto anche per salvare un pezzo del parco della Caffarella dall’ennesima speculazione da parte del capitale finanziario a scapito del bene pubblico.

Vendere il patrimonio pubblico per fare cassa significa sottrarre a chi vive la città spazi di relazione e di confronto che siano liberi dalla logica mercificatoria, privatistica e mortifera del capitalismo. Significa permettere alla proprietà privata e alle sue forme distorte provocate dalla finanziarizzazione del mercato immobiliare, non solo di fare profitti, ma di dettare le regole del gioco in modo autoritario. 

Chi c’è dietro la finanziarizzazione? Sostanzialmente c’è la dematerializzazione del bene immobile, del senso stesso di proprietà, al fine di rendere il tutto impalpabile e inafferrabile, suppostamente governato solo dalle invisibili leggi del mercato.

Non conosciamo il vostro progetto rispetto a Villa Greco, pensiamo che semplicemente non ne abbiate uno, e che crediate che banalmente è meglio lasciar scorrere la situazione attuale. Sgomberando avete scelto di lasciare che tutto scorra, anche se questo significa destinare quell’immobile all’abbandono, o alla trasformazione in villini di pregio o in un club sportivo privato.

 

L’analogia con l’approccio delle istituzioni alla crisi ecologica è evidente. Sappiamo che è necessario in breve tempo fare a meno del fossile, investire in modo sistematico sul trasporto pubblico, ridurre i consumi, impedire quelli di lusso responsabili di gran parte delle emissioni di gas climalteranti, difendere il bene idrico sottraendolo alle multiutility e riparare le perdite negli acquedotti, ridurre la produzione di rifiuti con una raccolta porta a porta sistematica e cogliere l’occasione per un cambio di rotta in senso redistributivo e di giustizia sociale.

Invece quello che viene fatto sono di solito proclami vuoti: si pianta qualche alberello, qualche orto urbano, si dipinge con fantasmagoriche vernice anti smog, e nel frattempo tutto prosegue come prima e peggio di prima, tra inceneritori, acquedotti-colabrodo,  finanziamenti e favoritismi di ogni tipo all’industria del fossile.

Berta Caceres, che ci ispira fin dalla nascita del collettivo, diceva che la rivoluzione doveva essere totale, non c’era mediazione possibile. Siamo entrati in via della Caffarella 13 il 6 marzo perché crediamo questo e continueremo a crederci senza mediazioni né compromessi.

Questo sgombero dimostra come abbiate deciso di porvi a difesa del capitale finanziario, sottraendovi al confronto politico e delegando alla Questura e al tribunale la “gestione” della crisi sociale ed ecologica in atto.

 

Ma sappiate che anche se ci avete sgomberate, noi continueremo a portare conflitto in questa città e ad attraversare con ancora più rabbia le mobilitazioni a livello nazionale e internazionale. 

Invitamo tuttu  a raggiungerci sotto la Regione: la rivoluzione ecologista non si sgombera.

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INVIMIT e finanza

Finanziarizzazione della città: report dell’assemblea

Riportiamo di seguito il report dell’assemblea tenutasi alla Laboratoria il 24/05.

 

  • Intervento Napoli Monitor

I sindacati di Barcellona e Madrid stanno seguendo il caso della Sareb, una banca che con soldi pubblici e finanziamenti europei ha comprato decine di migliaia di immobili che erano di banche fallite nel 2008 e li ha poi svenduti a fondi immobiliari (Cerberus, Goldman Sacks ecc). Si tratta quindi di beni pagati con soldi pubblici che sono finiti direttamente in fondi privati. Da qui i sindacati hanno articolato una campagna di contrasto alla finanziarizzazione che si chiama “la Sareb è nostra”. Dopodiché la Sareb è fallita, in bancarotta programmata. In Italia operazioni di questo tipo sono quasi sempre gestite da Cassa depositi e prestiti e la Rev sgr, come la “bad bank” spagnola, che prende un portfolio di immobili pubblici e li svende ai grandi fondi. Questo è un meccanismo finanziario che finisce per trasformare palazzi fisici in una struttura di profitti finanziaria (una fonte di guadagno per investitori). I mutui subprime, gli affitti brevi turistici e altri strumenti stanno finanziarizzando tutti gli immobili del Sud Europa. Tra questi strumenti vi sono gli NPL (Non Performing Loan): gli Stati danno i soldi per fornire credito ai fondi e li svendono. Probabilmente Invimit è uno di questi fondi che agiscono nel mercato privato. Gli NPL sono crediti deteriorati che non producono reddito e quindi vengono messi a valore attraverso la loro svendita ad operatori finanziari.

Patto per Napoli tra Invimit (rappresentato da Draghi) e comune di Napoli. Siccome la finanza internazionale richiede un continuo apporto di fondi, liquidità e debito da parte dello Stato, la finanza si configura come la negazione del libero mercato: non funziona secondo le regole della concorrenza liberale, è la sua negazione. Tanto più cresce la finanza, quanto più decresce la produttività. Le note di debito degli Stati Uniti vengono utilizzate per dare credito alla finanza, che restituisce il debito e chiede liquidità agli Stati, creando una non corrispondenza e una negazione della creazione di valore concreta, con la continua emissione di soldi delle banche statali. Lo stato deve continuamente presentare la svendita del pubblico al privato per garantire il funzionamento di questo sistema, giustificandola con la retorica del bene comune. È il processo di depoliticizzazione delle istituzioni pubbliche attraverso il discorso dei beni, che smantella le strutture della politica antagonista.

  • Intervento Ex Asilo Filangeri

Il percorso dei beni comuni napoletani nasce da un insieme di occupazioni che nel tempo hanno deciso di non limitarsi ad un solo progetto politico, ma di essere una realtà eterogenea di occupazioni che hanno liberato i beni abbandonati del tessuto metropolitano di Napoli con il fine di restituirli alla pubblica fruizione.

Si tratta di spazi autogestiti attraverso assemblee pubbliche dove chiunque può partecipare con proposte d’uso, senza controllo sui contenuti (se non di essere esplicitamente antifascita, antisessista e antirazzista). 

Lo strumento giuridico per farsi riconoscere, nato dalle stesse assemblee, è stato individuato nell’uso civico e collettivo urbano. L’obiettivo era rinnovare le istituzioni per fare in modo di uscire dagli strumenti tradizionali (come le concessioni), per permettere il riconoscimento di un autogoverno di una comunità senza l’uso specifico di una realtà: di fatto lo spazio non è affidato a nessuno, l’uso è condiviso o a rotazione, senza contratto con il comune. Si tratta dunque di spazi di proprietà comunale. Serviva la dichiarazione di uso civico che traducesse le pratiche

La dichiarazione è stata poi riconosciuta dal comune con una delibera dando la possibilità alla comunità di autogestirsi. Il comune di Napoli ha inoltre deciso di farsi carico delle utenze, della manutenzione straordinaria e altre spese che potessero supportare sperimentazioni di autogoverno che però rimanevano libere. 

Da questi spazi è nata una rete che ha posto con forza il tema del debito. Napoli ha infatti un debito pubblico altissimo ed è sempre sull’orlo del dissesto e questo diventa come noto una scusa per non fornire servizi. Il movimento ha smascherato questa dinamica – raccontata come qualcosa di necessario per reagire alla crisi – provando a ripoliticizzare questo meccanismo, proponendo un percorso di partecipazione popolare che è sfociato in un Audit sul pubblico. L’obiettivo non è un controllo contabile del debito, ma un controllo politico fatto per capire come nascono i debiti e con chi vengono contratti e se vengono contratti per gli interessi generali oppure no. L’Audit si è riunito in assemblee pubbliche e ha dichiarato alcuni debiti come illegittimi. Uno dei temi principali è la questione dei derivati: contratti di finanzia derivata molto aleatori, stabiliti dal comune senza il rispetto delle forme giuridiche necessarie, per cui si era convint* che fossero illegittimi, ma stabilirlo formalmente e impugnarli diventava complesso perché bisognava rivolgersi alla corte di Londra. Anche i commissariamenti (organo statale che gestisce emergenze, come i terremoti ecc) servivano per sottrarre il controllo democratico. Non solo: i debiti contratti dal commissario straordinario erano poi nel bilancio della città. Un altro è quello dei mutui di cassa depositi e prestiti, che nasce come ente con il compito di fornire credito agevolato agli enti locali per poter fare servizi e infrastrutture nell’interesse generale. Se non che a un certo punto cassa depositi e prestiti è stata privatizzata da un 15% di fondazioni bancarie, e da allora ha iniziato a comportarsi come una SPA. Nel caso di Napoli cominciavano a concedere crediti con un tasso di interesse alto quattro volte quello di mercato. Si è fatto anche un Audit su tutti gli usi e gli impieghi del patrimonio pubblico, scoprendo che agli usi pubblici venivano date concessioni altissime, mentre a quelli privati concessioni bassissime, spesso non rese pubbliche

Il percorso dei beni comuni ha provato a far sì che gli spazi pubblici non si limitassero ad essere proprietà pubblica, ma che fossero accessibili liberamente senza barriere economiche. Con i finanziamenti del PNRR lo Stato ha potuto stanziare soldi per città metropolitane in dissesto. Questo meccanismo prevede che lo Stato possa dare dei fondi alla città per far respirare le casse, però con accordi che vincolano i sindaci devono tagliare le spese, tagliare servizi, razionalizzare le partecipate (cioè le società pubbliche) e valorizzare il patrimonio. L’intenzione quindi non è vendere, quanto mettere a reddito, quindi cambiare la destinazione degli immobili e sottoporli alla privatizzazione con meccanismi che consentono di finanziarizzarli per pagare canoni alle casse comunali e quindi imporre barriere economiche all’utilizzo dello spazio. Il primo attacco dei beni comuni probabilmente non è di sgomberarli, ma di normalizzarli e depoliticizzarli. L’obiettivo, quindi, non è conservare i beni comuni, ma il tema che va posto con forza è il destino del patrimonio. Nel caso di Napoli il comune ha deciso di mettere immobili comuni come garanzia di debito in fondi di Invimit. La retorica delle istituzioni è che il fondo dovrebbe essere una modalità per far avere un ritorno economico alla città attraverso la finanziarizzazione. Ma la gestione dell’immobile viene cambiata e quindi si dà luogo ad una gestione privata. Non sappiamo che tipo di potere effettivamente manterrà la città sull’immobile. Audit vuole pubblicare una serie di domande su come vengono scelti gli immobili, come verranno gestiti.

  • Intervento Lucha y Siesta

La casa delle donne Lucha y Siesta è un luogo di autodeterminazione delle donne. Lo stabile in cui ha sede è di proprietà Atac, la società partecipata più indebitata d’Italia. Le partecipate sono usate per incrementare i processi di finanziarizzazione. In questo caso, doveva essere venduto in quanto patrimonio di Atac per risanare il debito delle amministrazioni.

Il luogo è oggetto di una battaglia da 14 anni, che ha visto tante fasi. Non è riuscita la lotta per la sottrazione dello stabile dalla vendita, ma questo processo ha fatto sì che il bene è stato prima dismesso, poi ricomprato.

La lotta si è data in un lungo dialogo con la politica istituzionale, che è sempra stato conflittuale. È stato fatto un lavoro di ribaltamento dei rapporti di forza nel corso del tempo, principalmente provando a rovesciare l’ordine del discorso facendo riferimento alla dicotomia pubblico/privato e alla questione politico-amministrativa. Nel conflitto con le istituzioni, è stata più volte affrontata una dicotomia tra funzioni amministrative e politiche. Secondo le istituzioni e il loro discorso, alcuni atti e decisioni sarebbero impossibili da un punto di vista amministrativo. La lotta è consistita nel dimostrare che l’impossibilità amministrativa è piuttosto una maschera delle istituzioni per sottrarsi dall’azione politica.

Dall’altro canto, Lucha ha lottato per affermare che una città, per essere efficiente, non deve per forza svendere, ma può “ripubblicizzare”, provando a forzare dunque il significato di efficienza. Al contempo, ha provato ad  immaginare un processo che trasformi le istituzioni riconoscendo le comunità che vivono gli spazi: aprire dunque un pubblico che dia la possibilità di riconoscimento davvero per tutt*.

Al momento stanno lavorando alla costruzione di un “patto di collaborazione”, che dovrebbe mettere insieme diverse norme in una singola norma: comodato d’uso gratuito per lo spazio, legge 4 sul contrasto alla violenza di genere della Regione Lazio, ed altre. Si vuole provare a proporre delle norme in un processo dal basso, e più ampio anche delle mura di Lucha. Il tentativo è quello di produrre una trasformazione che non ci riduca a uno spazio da valorizzare. Si ritiene che per rompere questa concezione del pubblico sia necessario sottrarsi dalla messa a valore e dal linguaggio della quantificazione. Per questo fine, ogni mezzo necessario è concesso, e si possono diversificare le pratiche. Al contempo, si deve produrre conflitto necessario a valorizzare esperienze.

Dall’esperienza della lotta per le mura di Lucha e Siesta, se ne ricava quanto sia cruciale rompere la dicotomia tra amministrazione e politica per avere agibilità di azione che produca delle trasformazioni durature: la logica dell’amministrazione è quella di riprodurre gli equilibri tramite presunti automatismi, e nascondere dunque la decisionalità e le possibilità di cambiamento.

Bisogna affermare con forza che gli spazi che rendono vivibili le città lo fanno perché altrimenti le città non sarebbero vivibili per alcune soggettività. Questo ci dà un credito. Per questo, bisogna superare la logica di inclusività universalistico-astratta: dire liberare spazi vuol dire farlo per alcune soggettività. E nel discorso pubblico, il grimaldello dev’essere quello di affermare che si parte da una situazione di credito. Al contempo, la prospettiva dev’essere di armare battaglie sorelle.

Il prossimo appuntamento è il 25 giugno: assemblea pubblica.

  • Intervento ESC

ESC è uno spazio sociale vittima di debito illegittimo. La sua vicenda è emblematica del debito pubblico a Roma. Oggi, si è arrivati ad un’ingiunzione di pagamento di 220.000 euro.

La svolta nella storia del debito pubblico romano si ha nel 2015, con la delibera 140. Sull’onda lunga della crisi del 2008, si parla del trasferimento del debito privato al debito pubblico nazionale e locale. Roma è travolta dal commissariamento e dal tema dell’insostenibilità del debito cittadino. Il trasferimento del debito è stato il grimaldello per le politiche di austerity e attacco al patrimonio cittadino.

Anni prima, la delibera 26 del 1995 stabilisce dei criteri per dare in concessione immobili del comune ad attività sociali. Ciò ha permesso proliferazione di spazi sociali e occupati, che hanno ottenuto strumento di riconoscimento. Nel 2016 si inverte completamente la rotta. Il tessuto di laboratori politici e spazi sociali romano è stato attaccato con lo strumento di debito e danno erariale. Gli affitti sono stati riconteggiati al 100% del mercato; il patrimonio pubblico ha iniziato quindi a funzionare con logica del privato.

 Ponendosi sulla stessa linea di Lucha y Siesta, lo slogan è stato: “Abbiamo crediti, non debiti”. Vuol dire che spazi come ESC hanno una funzione sociale determinante, e al contempo disconosciuta.

Nel frattempo, si stanno affermando altre logiche: funzionalizzazione della libera iniziativa civica, autogestione e autogoverno inserite nella macchina di produzione cittadina. Svuotarle dalla loro autonomia a capacità di agire liberamente [?].

Il dibattito sui beni comuni è stato centrale in un precedente periodo di mobilitazione. Oggi similmente è necessario rimettere al centro del dibattito e delle rivendicazioni la funzione sociale della proprietà privata: il privato deve avere un limite e una regola per la sua attività, in base ad un’idea di funzione sociale. Il patrimonio è una leva democratica di autogoverno che non può essere cancellata se non con danni gravissimi.

Oggi siamo in una fase complessa, ed è difficile fare proposte. Nella nuova fase post pandemica del PNRR dirottato sul terreno bellico, il tema dei Beni comuni può essere centrale come campo di conflitto. Ovvero, come terreno di continua negoziazione tra autonomia, riappropriazione per l’autogestione. Al contempo, è terreno di scontro sul concetto di valutazione dell’impatto sociale. In questo senso si gioca, come detto, sulla negoziazione dei concetti di “credito” e “debito”: ciò vuol dire che siamo realtà produttive sui territori ma non da un punto di vista direttamente economico. Il punto è che la logica del profitto finanziario non può cogliere questa produttività. Nella capacità di immaginare e praticare questo terreno di conflitto sta la possibilità stessa della vita democratica nel nostro paese.

  • Intervento Scup

L’esperienza di Scup nasce in Via Noala 5 ed è costellata di sgomberi, l’ultimo dei quali nel 2015. Il bene pubblico in via Nola, una volta sgomberato, è stato venduto ad un privato, e lo spazio è stato smantellato.

È stato successivamente occupato uno spazio di proprietà di RFI, sempre nel quartiere Appio latino, in via della Stazione tuscolana. Una volta occupato, si è ottenuta la rimozione dell’amianto e il comodato d’uso. Sono state inoltre promosse numerose attività: una palestra popolare, incentivato eventi culturali, ecc.

Nonostante tutto questo, è stata ricevuta una lettera di restituzione dello spazio entro il 30 ottobre. A quel punto si è aperta una trattativa con l’amministrazione pubblica, la Regione e RFI che è il proprietario dello spazio, e in generale di tutta l’area. Questo spazio quindi è privato e parte di un progetto che si chiama reinventig cities. È stato aperto un bando, definito partecipativo: di fatto però la cittadinanza non è stata effettivamente consultata. Il progetto si estende su 5 mila ettari in cui saranno costruiti palazzi; è previsto solo cemento, e nessuna attività sociale per gli abitanti del quartiere. La trattativa sullo spazio di Scup è partita bene, il Comune e la Regione sono sembrate partecipative. A RFI interessa solo vendere tutta l’area, Scup propone un modello di progettazione diverso. 

Si vuole rilanciare ed estendere la moblitazione oltre il piano della trattativa, riportando all’opinione pubblica la situazione. Si propone dunque una mobilitazione generale al patrimonio, che si terrà tra il 15 e il 20 giungo. Inoltre, si tiene un incontro martedì 31 alle 18 a Scup con molte altre realtà realtà. Cercheremo poi di allargare la mobilitazione ad altri spazi sociali che sono nella stessa situazione. Si vorrebbe portare la causa in piazza per non farla vivere solo nel nostro giro, per cercare di portare all’opinione pubblica quello che sta succedendo in un quartiere che vive una degenerazione. Noi sappiamo che le proposte del quartiere per il quartiere sono Asl, spazi verdi, posti per anzian*; poco di questo sta nel progetto di reinventig cities.

  • Intervento Communia

Communia appartiene al privato. Però il patrimonio pubblico di cui facciamo parte è quello della città. Perché Communia è entrato nel progetto di rivalutazione della città del quartiere di San Lorenzo: un quartiere abbandonato per molti anni, che è tornato sotto i riflettori con il dramma di Desire. Si parlava del forum che ha fatto Scup per chiedere ai residenti cosa ci andasse fatto nel quartiere. La risposta è stata la stessa a San Lorenzo: costruire una città pubblica. 

Quello che è accaduto a Communia è che i fondi di finanza internazionale, attraverso delle partecipate, si sono impossessate dei lotti di via dei Lucani. Siamo entrati in trattativa con la città per difendere la possibilità di esistenza di Communia, e per attaccare l’incapacità della gestione amministrativa. 

Cruciale per la trasformazione di via dei Lucani è che c’è stato un cambio nell’amministrazione. Prima si proponeva un parco, perché san Lorenzo è privo di parchi. Poi l’amministrazione successiva ha cambiato progetto: ha provato a costruirci un parcheggio privato. Il cambio di amministrazione ha dunque dato la possibilità di inserirsi i proprietari all’interno della progettazione. Ha quindi aperto la possibilità ai fondi di finanza internazionale (nel nostro caso il fondo internazionale Cerberus) di entrare all’interno della speculazione urbana. 

Quello che noi stiamo cercando di fare è di far valere il dovere pubblico sulla città. Ribadire la legge del ’68 104 che prevede che il soggetto pubblico debba garantire dei servizi all’interno della città e trovare gli spazi per garantirli. Denunciamo la carenza di servizi, e il dovere del pubblico di garantirli. Stiamo quindi facendo una trattativa per cercare di togliere il privato dal pubblico. 

  • Intervento L.E.A. Berta Càceres

Caffarella 13 è sintomo del rapporto malato che c’è a Roma tra proprietà fondiaria, imprese costruttrici e amministrazione comunale e regionale a Roma. La villetta occupata si inserisce all’interno di un’operazione di lottizzazione e costruzione abusiva all’interno di un’area protetta da numerosi vincoli. Ovviamente si tratta di un abusivismo di lusso, e non dettato dalla necessità di avere sopra di sé un tetto.

Roma è una città con molto patrimonio pubblico, ma in cui molti enti, istituzioni e uffici pubblici sono in affitto da grandi famiglie di costruttori. Questo è indicativo dell’uso che a Roma si intende fare del patrimonio pubblico, e dei favori invece che vengono fatte alle famiglie proprietarie con soldi pubblici. Su questo ha fatto un inchiesto Francesco Erbani nel 2013.

Appare chiaro, dunque, come in un mondo e in una città in cui gli spazi pubblici stanno materialmente scomparendo, sia proprio l’intero concetto di pubblico ad correre il grave pericolo di essere considerato sconveniente e desueto in futuro non lontano. Dunque la lotta per non vendere gli spazi è la lotta per riaffermare il potere sulle nostre vite.

Invimit: società che gestisce i fondi immobiliari pubblici nei quali ci sono immobili distribuiti in tutta Italia. È una società di propietà del MEF. I fondi immobiliari vengono creati, a livello teorico, per ridurre il debito pubblico. In sostanza, nello specifico, la regione svende immobili per ottenere subito denaro e apparare debito. Il fondo all’interno del quale si trova via della caffarella 13 si chiama i3 regione Lazio. La problematica che abbiamo riscontrato risiede nel fatto che INVIMIT gestisce e la regione Lazio è proprietaria al 70% del fondo i3, dunque: chi prende le decisioni immobili che si trovano all’interno del fondo? La società che gestisce il fondo? (INVIMIT) o l’ente che è proprietaria del fondo stesso? (LA REGIONE).

La regione non ha dato risposte in merito e il regolamento (all’interno del quale sono contenute queste risposte) non è pubblico. È partita la richiesta degli atti per poterlo visionare e siamo in attesa di una risposta.

30/05: iniziativa sull’abitare del comune, senza coinvolgere movimento ma sì Assoimmobiliare.