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Intervista a Les Soulèvements de la Terre

Les Soulèvements de la Terre è il nome di un movimento nato in Francia che  ha avuto recentemente una certa eco, principalmente grazie alla mobilitazione contro i mega-bacini nella regione francese di Poitou. Ha fatto breccia nel dibattito del movimento sociale anche in Italia e ha colpito l’immaginario il “primo atto” a Saint-Soline. Il “secondo atto” della mobilitazione (24-25 marzo) ha richiamato attivisti ecologisti e militanti anti-capitalisti non solo da tutta la Francia, ma da tutta Europa, dando vita ad un corteo di 30.000 persone. Ciò che ha colpito è stata la capacità dimostrata dagli organizzatori, tra i quali centrali sono i SdT, di intrecciare rivendicazioni contadine e locali con e posizionamenti generali e rivoluzionari, sensibilità ed estetica dei nuovi movimenti ecologisti e pratiche determinate della tradizione autonoma antagonista in una forma politica di movimento.

La grande mobilitazione si è scontrata con una repressione inedita, che ha provocato più di 200 feriti, tra cui alcuni molto gravi e una persona ancora tra la vita e la morte, nonché una minaccia di dissoluzione del movimento da parte del ministro dell’interno, che ha provato ad utilizzare Soulèvements de la Terre per rompere la larga alleanza politica nell’opposizione al governo, animata dalla mobilitazione contro la riforma delle pensioni e dalla denuncia delle violenze poliziesche, provando a stigmatizzare come criminale questa forma di antagonismo politico. Ma ha prodotto  anche enorme solidarietà, e l’interessante processo di nascita di decine di comitati locali a nome Les Soulèvements de la Terre in tutta Francia e non solo, che sembra aver per ora sventato l’attacco del governo.

In questo contesto, ci è sembrato interessante fare un passo indietro e provare a ricostruire la storia e la proposta politica di SdT . La nostra convinzione è che questo possa essere di grande interesse per il dibattito italiano, soprattutto per il milieu ecologista che può vedere in quest’esempio uno grande stimolo. A patto di conoscerne le specificità, che permettono di immaginare nuove vie piuttosto che trasportare acriticamente una forma che non può, ovviamente, essere linearmente tradotta.

 

Genesi, progetto politico, organizzazione

  • Vorremmo iniziare chiedendo come è nato Les Soulèvements de la Terre, e quali sono le riflessioni politiche che hanno portato alla sua genesi.

SdT è nato nel 2021 a seguito di una riflessione sviluppatasi in continuità con il lavoro di composizione politica della lotta contro l’aeroporto di Notre-Dame de Landes, nota come Zone a Défendre (ZAD), tra una parte dell’autonomia, il nascente movimento per il clima e il mondo contadino, in particolare il sindacato della Confédération Paysanne. Questi legami hanno permesso di sviluppare un’analisi che si è costituita su due livelli.

Un primo livello parte da riflessioni diffuse nella società francese. Oltre alla crescente preoccupazione per quanto riguarda il clima, simile in vari paesi europei, c’è la questione specifica dell’evoluzione sociale del mondo agricolo. Stiamo assistendo a un passaggio storico: circa la metà delle agricoltrici sono vicine all’età della pensione, e un’enorme porzione di territorio agricolo del paese cambierà presto di mano. Questo cambiamento apre la strada a due tentativi capitalistici che sono già innescati: l’artificializzazione e l’accaparramento. L’artificializzazione è l’insieme dei grandi progetti che trasformano il territorio agricolo, e spesso lo “cementificano“, facendolo diventare altro (centri commerciali, aeroporti, ecc.). L’accaparramento, invece, è la logica per la quale grandi multinazionali o imprenditori agricoli acquistano la proprietà di parti importanti di territorio agricolo, togliendola di mano ai piccoli produttori e centralizzando la produzione.

Oltre a questo piano, ce n’è un altro, più strettamente militante, che deriva da una serie di piccole conclusioni cui siamo giunte dopo aver affrontato impasse a differenti livelli nel contesto della ZAD. Nel 2018  il progetto di costruzione dell’aeroporto di Notre Dame de Lande è stato abbandonato. Si tratta indubbiamente di una vittoria del movimento, che però contemporaneamente ha sperimentato contrasto intorno all’idea che la ZAD fosse la forma fondamentale di opposizione ai grandi progetti infrastrutturali. La strategia della “moltiplicazione delle ZAD”non aveva raggiunto l’ampiezza che alcune si aspettavano. Inoltre, la controparte era diventata molto più reattiva di fronte alla creazione delle ZAD. Si sentiva il bisogno di sviluppare altre strategie. Ci si è dunque chieste se la maniera di approcciarsi alle lotte locali “ambientali” poteva essere non solo difensiva ma anche offensiva. 

Infine, abbiamo pensato che fosse necessario trovare nuovi punti di alleanza e di composizione, per agire insieme e sviluppare dei terreni di lotta che fossero più impattanti e che riuscissero davvero a costruire rapporti di forza positivi, permettendo a varie frange di movimento di uscire dall’isolamento in cui si trovavano. 

Per quanto riguarda il mondo agricolo e contadino, invece, la Confederation Paysanne ha sempre funzionato tenendo il piede in due staffe: una istituzionale e una più di movimento e popolare. Negli ultimi anni, nel mondo istituzionale i sindacati agricoli avevano perso forze, e da un punto di vista di movimento non riuscivano più a produrre lotte significative. 

Un’impasse era percepita anche dai movimenti dei più giovani nati intorno alla questione climatica, che continuavano ad attraversare ripetutamente le città con grandi marce per il clima ma che non riuscivano ad ingaggiare un rapporto di forza con il potere. C’era insomma una possibilità di convergenza tra forze anche molto diverse ma unite dalla necessità di agire. Era importante diventare “forza di composizione” che potesse andare in aiuto delle lotte locali che avessero bisogno di cambiare il rapporto di forza. Abbiamo dunque analizzato e riconsiderato il repertorio di pratiche di lotta che possediamo e che siamo in grado di mettere in campo e coordinare.

 

  • Vorremmo sapere più nello specifico come vi siete organizzati nel corso degli anni e quali pratiche avete messo in atto. In generale, come funziona SdT?

 

A seguito degli sviluppi descritti, nel gennaio 2021, qualche mese dopo l’esplosione pandemica, abbiamo chiamato una prima grande assemblea di 350 persone alla ZAD. Si partiva da un’idea modesta: non di trovare un piano ideologico comune, ma piuttosto partire dalle nostre differenze e costruire delle campagne d’azione contro degli obiettivi evidenti, come ad esempio l’industria del cemento o l’industria dei pesticidi. Il nostro obiettivo era innanzitutto costruire un piano di comprensione: un linguaggio comune a partire da problemi comuni. Abbiamo pensato fosse più facile farlo iniziando da un circolo un po’ chiuso, anche se esteso, perché nelle assemblee pubbliche con molte persone è difficile prendere decisioni e organizzarsi: per questo l’assemblea era su invito ma con uno spettro largo. In parallelo, abbiamo costruito un “groupe de suivi” che esiste ancora oggi. Si tratta di un gruppo di una cinquantina di persone che si riunisce più volte l’anno in videoconferenza. L’obiettivo di questo è di tenere insieme tutte le necessità organizzativo-amministrative di SdT: contabilità, segreteria ma anche i gruppi di referenti che vanno ad incontrare le lotte locali.

Prima di Saint-Soline e della dichiarazione dell’intenzione di dissoluzione abbiamo continuato tranquillamente su questo doppio piano: momenti di grandi assemblee chiamate “interludi”, che hanno luogo 2 o 3 volte l’anno e dove si discute con le differenti lotte locali o singole persone per costruire un calendario d’azione, e il lavoro del “groupe de suivi”, che segue le linee guida decise nelle grandi assemblee ma che ha anche potere decisionale. Quindi negli interludi si delinea un calendario, si fa lavoro di composizione politica e di pianificazione a medio-termine; in seguito, il groupe de suivi lavora nello specifico su ogni aspetto: comunicazione, segretariato, preparazione delle azioni. Proviamo ad assicurarci che ogni azione che prepariamo riesca a tenere insieme la solidarietà tra mondo contadino, movimento ecologista, lotte territoriali e movimento autonomo e che le pratiche di lotta di ciascuna si articolino insieme affinché si ottengano delle vittorie su differenti livelli, sia nelle lotte locali sia nella grandi azioni.

Fino all’autunno dello scorso anno avevamo un’esistenza pubblica ma che aveva risonanza soprattutto nel mondo militante. Dopo il primo atto di Saint-Soline e le azioni che sono state fatte in autunno abbiamo iniziato ad avere una risonanza nazionale, e molta gente proveniente da ambienti differenti ha iniziato ad avvicinarsi.

Per quanto riguarda i rapporti con il territorio, cerchiamo di rafforzare di volta in volta i legami con il mondo contadino andando a conoscere i territori con cui vogliamo lottare insieme. Quando c’è una lotta territoriale, andiamo a conoscere la storia di quei luoghi e cerchiamo di incontrare non solo i collettivi politici, ma tutte le attrici del mondo contadino provando a mettere in connessione delle realtà che prima non lo erano. Questo ci permette di arrivare su un territorio sapendo quali sono le dinamiche di accaparramento locali e quali sono le grandi aziende che partecipano al processo di “artificializzazione”. Cerchiamo insomma di identificare contro chi lottare, chi andare ad incontrare, e dunque di rinsaldare il legame tra mondo agricolo, ecologico e milieu autonomo, dal quale molte di noi provengono.  

 

Comunicazione ed estetica per un ecologismo radicale

  • Soulèvements de la terre ha avuto una indubbia risonanza nell’ultimo periodo. Oltre agli aspetti organizzativi e strategici pensiamo che uno dei vostri punti di forza sia anche la   costruzione di un’estetica e di narrazioni intorno alle lotte ecologiste. Quanto è importante un nuovo modo di raccontare le lotte per SdT?

 

A riguardo possiamo individuare due aspetti.

Il primo è la forza della narrazione. Prendiamo l’esempio della lotta contro i mega-bacini. Nel settembre 2021, era una lotta di cui nessuno aveva sentito parlare; abbiamo fatto le prime azioni con 400 persone. In un anno e mezzo siamo passati da 400 a 30.000 persone nell’ultima manifestazione. Tra gli altri fattori, abbiamo puntato molto sulla forza della narrazione che questa lotta è in grado di generare. Non solo una narrazione astratta, fatta di comunicazioni sui social media. Certo ci interessa anche quella, ma vogliamo avere soprattutto un ruolo nella realizzazione di azioni impattanti: blocchi, occupazioni; non solo manifestazioni simboliche. Quando riusciamo a farlo,  le persone che hanno partecipato si portano a casa un’esperienza forte, e producono a loro volta una narrazione. Le persone che tornano una seconda volta a una manifestazione contro i bacini sanno che non partecipano a una manifestazione simbolica, ma a una pratica politica collettiva attiva. 

Al contempo, sappiamo che questo non è sufficiente a vanificare la narrazione criminalizzante dei nostri gesti politici prodotta dalle autorità. Per questo risulta fondamentale anche svolgere un grande lavoro di comunicazione, con l’idea di assumere pubblicamente e apertamente le azioni e i gesti  che portiamo avanti. Riteniamo che il fatto che tutte le persone che partecipano agli atti condividano e legittimino anche i gesti più radicali contribuisce alla costruzione di una narrazione pubblica alternativa. 

Secondo noi la narrazione orale degli eventi, sostenuta tanto da una comunicazione mediatica incisiva che da personaggi pubblici, intellettuali e scienziate partecipa a una riappropriazione di  gesti e pratiche politiche più radicali.

 

Presente: Saint Soline e la lotta contro la riforma delle pensioni

  • L’ultimo atto svoltosi a Saint Soline è probabilmente quello che ha ricevuto maggiore risonanza. A distanza di qualche settimana, puoi farci qualche riflessione su questo momento nei suoi aspetti positivi e negativi? Come si colloca nel quadro della mobilitazione contro la riforma delle pensioni? 

 

Sul sito Lundi Matin sta uscendo un testo di bilancio critico sul 25 marzo, vi invito a leggerlo perché completerà la mia risposta

Innanzitutto bisogna considerare la costante crescita di conflittualità sociale in Francia dal 2015 al 2020, che ha visto succedersi il movimento contro la loi travaille, la lotta di Notre Dame de Lande e una serie di altre ZAD, per arrivare al movimento dei Gilets Jaune. Questa sequenza di lotte è stata contrastata da una repressione sempre più feroce. L’esplosione pandemica e la serie di confinamenti hanno interrotto questo ciclo, congelando le dinamiche di elaborazione politica e di lotta.

SdT è nato subito dopo questo periodo di confinamento. Il progetto ha colpito per la sua capacità di articolare azioni dirette e conflittuali con una dimensione “di massa”, o comunque larga, che ne supporta in pieno anche gli aspetti più radicali. Certo, è evidente che sia diventata una questione di portata nazionale anche per l’enorme siccità che abbiamo dovuto fronteggiare, che ha fatto sì che il problema dell’acqua sia ormai percepito come centrale.

La risonanza di questa lotta ha fatto sì che una parte del mondo sociale, del mondo scientifico, di associazioni ambientaliste che erano isolate e la cui voce non si sentiva molto, abbiano trovato la legittimità e lo spazio di prendere parola pubblicamente. Questo è stato cruciale, perché all’inizio il progetto di realizzazione dei bacini si presentava come “ecologico”: Il movimento popolare ha avuto la forza di determinare uno slittamento di opinioni  delle associazioni ecologiche e delle scienziate che in un primo momento avevano sottoscritto il progetto. Una dimostrazione di quanto scienza e politica non siano scindibili, e che l’ecologia non consiste nell’applicazione di una serie di indicazioni tecniche ma sia un campo di battaglia. 

Per quanto riguarda nello specifico il 25 marzo e l’ultima manifestazione a Saint-Soline, penso che un insieme di elementi legati all’organizzazione dell’evento abbia determinato un sentimento di fallimento, nonostante sia stato anche molto bello per la grande partecipazione e determinazione. Non ci aspettavamo di trovarci di fronte a un muro di gendarmerie pronto a dispiegare quel livello assurdo di violenza, con tutte le conseguenze che conosciamo – due persone tra la vita e la morte, duecento feriti, di cui vari gravi. Noi abbiamo sempre applicato la strategia di aggirare le forze dell’ordine per far sì che il conflitto non fosse frontale, e inevitabilmente asimmetrico, ma le forze dell’ordine hanno imparato dalle manifestazioni precedenti le nostre tattiche, e questo ha fatto sì che ci trovassimo di fronte a un enorme dispositivo di polizia. Una delle principali difficoltà a cui ci siamo trovate davanti, è stata quella di gestire una folla di 30.000 persone. Con questi numeri è stato difficile aggirare il dispositivo di polizia: fatalmente un certo numero di manifestanti si è assemblato tutto in un punto, e ha cercato di forzare il blocco poliziesco per provare ad andare avanti.

Insomma, non ci aspettavamo che lo Stato si assumesse la responsabilità di un tale livello di violenza, quindi siamo rimaste abbastanza scioccate. Anche per il movimento contro la riforma delle pensioni si sta mettendo in atto una repressione analoga. È evidente che siamo di fronte a un cambiamento di paradigma se si pensa alla maniera in cui lo Stato negli ultimi 15/20 anni ha gestito il conflitto. Lo stato infatti ha sempre cercato di ricostituire le condizioni di dialogo tramite un movimento di differenziazione e stigmatizzazione: da un lato poneva le persone violente che vogliono uccidere la polizia, ma dall’altro c’erano le persone che rispettano il patto repubblicano e con cui ci si può intendere. Invece oggi tanto riguardo alla questione pensioni che alla lotta contro i mega bacini, lo Stato si assume la responsabilità di una dura violenta, ma non cerca assolutamente di ricostruire le possibilità di dialogo sociale.

Con questa situazione bisogna ovviamente fare i conti, perché ogni volta che cercheremo di mettere in atto delle lotte radicali ci dovremo confrontare con questo livello di violenza, e bisogna cercare di portare avanti le nostre lotte senza che le persone si demoralizzano. Dopo il 25 noi non abbiamo avuto un attimo di pausa, ma abbiamo l‘impressione che le persone non stiano disperando: anche se sono ancora scosse da quello che hanno vissuto tanto a Saint Soline che nelle strade contro la riforma delle pensioni, nessuna sta sostenendo che bisogna smettere di lottare, o che si debba tornare a delle pratiche strettamente non violente, ma tutte sembrano prendere atto che la situazione sta cambiando e che bisogna essere più forti e determinati per fronteggiarla. Ad oggi non c’è stata nessuna dissociazione pubblica né riguardo a quello che è avvenuto a Saint-Soline né dalle forme di constatazione più dirette e radicali contro la riforma delle pensioni.

Nonostante ciò lo stato sta cercando ancora di portare avanti la narrazione della figura dei violenti, ma per ora questa strategia non sta funzionando. Noi per primi non rivendichiamo di essere un gruppo violento; diciamo che è assolutamente necessario per fronteggiare dei nemici che sono molto più grandi di noi, e che sono anche molto determinati, operare dei recuperi di pratiche dai repertori della lotta sociale. Anche il sabotaggio è una pratica sempre esistita nel mondo sindacale, non è propria solo ai gruppi radicali e rivoluzionari, e di questo se ne rendono conto in molte. Dunque, anche se stanno cercando di disegnarci come violente,  a noi poco importa dal momento che tanto le persone con cui abbiamo condiviso la lotta, che la maggior parte della popolazione, non stanno aderendo a questa narrazione. Per il momento non siamo state ancora dissolte, poi abbiamo ancora dei vecchi ricorsi da cui dobbiamo difenderci, ma in ogni caso l’onda di sostegno che si sta producendo ci fa dire che il tentativo di dissoluzione per ora non sta funzionando. Questo momento non è più difficile rispetto ad altri già passati dove sono riusciti a costruire un’immagine di noi come violente e distaccate dalla società.

 

Progetti e futuro 

  • Dopo la minaccia di scioglimento c’è stata un’immediata e larga risposta di sostegno. Per far fronte a questa minaccia SdT ha lanciato la proposta di far nascere in tutta la Francia comitati locali di sostegno al movimento. Questo appello ha avuto una grande eco immediata e decine e decine di comitati sono stati creati. Come è nata l’idea di questa strategia? Pensi che la moltiplicazione dei comitati locali cambierà molto la struttura del movimento?

 

Oggi sono in atto due dinamiche intrecciate.

Già da agosto infatti sono nati comitati locali in alcune parti della Francia. Inizialmente si sono creati soprattutto gruppi di persone legate per affinità, che partecipavano localmente alle mobilitazioni e organizzavano campagne pubbliche. Ci siamo interrogati per mesi  mesi riguardo all’ ufficializzazione e la diffusione dei comitati locali. Non essendo SdT un movimento le cui assemblee organizzative sono pubbliche, c’è stato un po’ il timore che la creazione diffusa dei comitati locali non si sposasse bene con il lavoro di composizione politica che abbiamo sin qui fatto. Inizialmente abbiamo solo accompagnato diversi tentativi di creazione di comitati che andavano avanti in posti diversi. 

Il fatto che le assemblee non fossero pubbliche rendeva difficile per le persone volenterose prendervi parte. Abbiamo quindi deciso di far partire dei cicli di formazione aperti ai comitati locali e alle persone che avessero voglia di unirsi al movimento di modo da capire il nostro gioco di composizione. Si tratta di formazioni che vertono sulla preparazione delle azioni e sulla comunicazione. A questo abbiamo affiancato un maggiore confronto internazionale, che ha preso vita nella prima formazione pubblica prima del 5 marzo. Secondo noi la questione dell’ecologia e delle risorse sono questioni che diventeranno sempre più centrali nelle lotte in Francia ma anche in Europa, per cui abbiamo sentito il bisogno di confrontare le nostre ipotesi politiche con quelle che si ponevano gruppi simili in paesi vicini.

Quello tutto questo lavoro da formiche ha preso un’accelerata: oggi stiamo assistendo a una proliferazione di comitati locali. Il primo incontro del comitato locale a Parigi ha visto più di 400 persone. Riceviamo moltissime mail da parte di persone che vogliono unirsi ai comitati. L’accelerazione e l’ufficializzazione dei comitati gioca un ruolo nella sequenza legata alla dissoluzione e nella strategia che abbiamo adottato: ci permette di dire che Sdt è diventato un movimento, e un movimento non si può sciogliere. 

Dunque la formalizzazione dei comitati ha un ruolo fondamentale ma non nasce solo come un fuoco di paglia all’interno di essa. Quello che ci immaginiamo per il futuro dei comitati locali è che operino un forte lavoro di rilancio delle azioni che portiamo avanti permettendo alle persone di organizzarsi localmente e più facilmente. Oltre a questo, dai comitati  speriamo possa arrivare un lavoro di indagine su quali sono le industrie e le società da combattere nei loro territori, e come organizzare delle azioni che si possano inserire in un calendario più ampio. Speriamo che permettano di creare un movimento che possa anche pensare sul medio o lungo termine azioni su una scala europea, tenendo insieme legami su tematiche che toccano i paesi confinanti. Per esempio durante l’ultima azione messa in atto sono venute le compagne della Val Susa, con l’aspettativa, anche, che una dinamica di lotta si rinforzi e prenda piede in Francia rispetto al TAV.

Ad oggi, quindi, ci troviamo all’intersezione di una doppia temporalità: quella molto urgente della dissoluzione, e al contempo il bisogno più lento di costruire una forza importante e che oltrepassi la frontiera francese. 

Andando al punto, per noi il problema cruciale sarà comprendere l’equilibrio tra Sdt, costituito da forze diverse ma in qualche modo centralizzate, e i comitati locali che si stanno creando. Ci sarà chiaramente un desiderio di autonomia, di decisione, e penso che tutto il lavoro sarà anche quello di riuscire a trasmettere, condividere, la maniere in cui ci si organizza. L’idea non è di creare un movimento perfettamente omogeneo, ma piuttosto che ognuna abbia curiosità e comprensione rispetto alle diverse componenti della lotta per avanzare insieme. E’ anche per questo che siamo in grado di condurre delle azioni contro i mega-bacini, dove c’è un certo tipo di lotta, ed altre in altri luoghi dove si attuano azioni magari meno forti ma che è molto importante che esistano.

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Grandi bacini: uno scontro tra mondi

In vista delle giornate di mobilitazione il 24, 25 e 25 marzo a Poitou contro il “sistema dei grandi bacini” di cui abbiamo già avuto modo di parlare qui, proponiamo la traduzione di un testo che riflette sul valore radicale di questa mobilitazione, pubblicato il 27 febbraio scorso qui. Buona lettura!
X. Signor presidente, c’è il ministro degli interni al telefono. Vuole parlarle riguardo le prossime manifestazioni contro i “grandi bacini” del 25 marzo. M. Mi stanca… X. Dice che potrebbero esserci fino a 40.000 persone e che bisognerebbe… M. Non ne posso più di questa storia dei bacini.
M. Non potremmo introdurci qualche papera e dei fenicotteri rosa, così tutti saranno contenti? O delle lontre? X. Signor Presidente… rischia di non essere abbastanza. M. E le otarde, la specie protetta? Non si possono allevare casse di otarde per fottere tutti? X. Gli oppositori dei bacini denunciano anche un accaparramento dell’acqua.
M. E se costruissimo dei grandi imbuti sopra i bacini? Per raccogliere l’acqua piovana? In più questa operazione creerebbe dell’ombra e limiterebbe l’evaporazione. X. Deve ritentare, signor Presidente. Riuscire a costruire questi bacini è una sfida importante per noi. Dovete ritrovare tutta la finezza politica che noi vi riconosciamo. M. Puoi andare a impiccarti con tutte le tue osservazioni da leccaculo. X. E’ sincero, Signor presidente.
M. In alcune tradizioni siberiane, il cacciatore inizia a mangiare la preda dagli occhi. Poi ne divora le viscere, leva la sua pelle, e a volte anche il naso. Dopo mima il loro comportamento con delle danze che possono durare per giorni. M. Questo è sia un segno di rispetto che un modo di adottare la prospettiva dell’animale, di apprendere a percepire il mondo come lui. Non potremmo proporre ai no-bacino di fare lo stesso con Darmanin?
X. Mangiargli gli occhi e tutto il resto? M. Potrebbe permettere loro di comprendere meglio il punto di vista dell’altro lato, questo farebbe avanzare il dibattito. X. Penso che Gérald potrebbe non essere d’accordo…
X. Ho letto che esiste un altro modo di fare, con un animale vivente. Potremmo accontentarci di bendargli gli occhi, di bendarci poi noi gli occhi a vicenda e mangiare l’amanite (fungo allucinogeno). In questa maniera ci incarniamo mutualmente nel corpo dell’altro. Forse potremmo cominciare da là… M. E’ meno efficace. E poi i no-bacini sono dei radicali, vogliono l’azione. Dì a Gérald che è un ordine presidenziale. Dai, sparisci X. Bene, signor presidente.

M. Ho veramente bisogno che tu mi aiuti.
M. Volevo unire l’oligarchia, era un sogno d’infanzia. Mettiamo da parte le nostre differenze per affrontare insieme le crisi, in maniera solidale. M. Ci sto riuscendo e non mi sono mai annoiato così tanto. Le nostre serate sono marce, sembrano finte, in pratica tutti si odiano. Insomma, non ce la faccio più.
M. So che non è un regalo quello che ti faccio, ma dobbiamo scambiarci di corpo. M. Voglio essere lasciato in pace, voglio deporre le mie uova nel mezzo delle graminacee.
X. Che fate con questa beccaccia, Signor Presidente? M. È un otarda imbecille. E bussa prima di entrare. X.La vostra misura distruttiva è stata molto apprezzata dai no-bacini, le cerimonie sono ancora in corso. M. Davvero?
X. Dicono che questo scambio di punto di vista è stato molto istruttivo, che non si aspettavano di vedere e comprendere così tante cose. Solo che ora, vorrebbero riprodurre l’esperienza con degli altri ministri, quello della transizione ecologica per esempio. M. Eh bhè! Geniale, è andata. X. Mi chiedo se non stiamo mettendo le mani in un ingranaggio pericoloso Signor Presidente. M. E andate anche voi.
X. I…Io? Ma….signor presidente… M. Dovete solo proporre la versione soft, con le amaniti. E portate con voi anche Elizabeth, vai, ah ah. M. Ditegli di trovare dei camion di amaniti! E vattene! Voglio che tutti i governatori avranno adottato il punto di vista dell’otarda canepetiere da qui alla fine della settimana!
M. Ah ah! Così risolvo due problemi in un colpo solo, ritrovo il gusto della politica piccolo mio! X. Eh…bene, signor presidente. M. Stai ascoltando? La mia vita sembra infine voler prendere una nuova piega.
La siccità invernale che stiamo vivendo, e quindi l’impossibilità per le falde acquifere di ricostituirsi, riattualizzano il dibattito sui “grandi bacini” (méga-bassines). Chiamate dai loro ideatori “riserve di sostituzione”, questi immensi serbatoi d’acqua in plastica – di cui uno dei più grandi, quello di Sainte-Soline, dovrebbe estendersi per sedici ettari –avrebbero lo scopo di aiutare l’agricoltura a superare le siccità che stanno diventando di giorno in giorno più intense, raccogliendo l’acqua delle falde acquifere l’inverno per facilitare l’irrigazione d’estate.
Le controversie che queste suscitano si concentrano in generale sulla loro efficienza reale e sui possibili effetti secondari che provocherebbero. Se queste questioni tecniche sono importanti, non devono però mascherare questioni politiche più ampie: i bacini cristallizzano e rivelano un confronto tra mondi, tra desideri antagonisti su come comporre un mondo comune. 
Dopo la metà del XX secolo, il numero di agricoltori e agricoltrici è diminuito drasticamente, passando dal 30% della popolazione lavoratrice nel 1955 a meno del 2% oggi, sebbene le dimensioni delle aziende agricole siano esplose e, ovviamente, anche il loro livello di meccanizzazione. Dietro un discorso di legittimazione che insisterebbe sulla necessità di nutrire la Francia, di esportare, e di liberare l’umanità dal peso gravoso del lavoro della terra, la rapida industrializzazione agricola è asservita agli interessi delle élite politiche ed economiche. La produzione agricola è diventata più prevedibile e redditizia per il capitale, mentre i costi di produzione sono diminuiti, consentendo così di spostare una parte del budget destinato al settore alimentare verso altre aree di consumo. L’agricoltura ha favorito lo sviluppo industriale fornendogli materie prime e offrendogli uno sbocco fondamentale grazie all’accelerazione della sua dipendenza da macchinari, pesticidi, fertilizzanti chimici e irrigazione.
A livello più profondo, la caduta libera del numero di fattorie, dei contadini e delle contadine espropriava le popolazioni dei mezzi e delle conoscenze che permettevano loro di assicurarsi forme di autonomia materiale, obbligandole, per sopravvivere, a vendere il loro tempo e le loro energie in un mercato del lavoro in forte espansione (1). Gli esseri umani, la terra, le piante, gli animali e gli ecosistemi rientrano tutti nella categoria delle risorse da sfruttare nel modo più efficiente possibile attraverso il potere tecnologico (2). L’agricoltura industriale è diventata così la chiave di volta di un rapporto con il mondo molto particolare, dove una piccolissima parte della popolazione è responsabile della produzione di cibo per tutti gli altri, e dove il dominio e lo sfruttamento del lavoro si esercitano attraverso l’effetto congiunto del mercato e l’espropriazione dei mezzi di sussistenza.
Le condizioni dell’accumulazione capitalistica, il desiderio di controllo e di emancipazione materiale delle classi dominanti e possidenti sono soddisfatte tanto più efficacemente quanto i mezzi di autonomia delle popolazioni sono deboli e, quindi, quando la loro dipendenza dal mercato è totale (3). Le diverse riforme pensionistiche e della previdenza sociale che conosciamo rientrano nella stessa logica, di passaggio dall’autorganizzazione al controllo statale e di mercato (4).
I grandi bacini trovano il loro significato compiuto solo in questa prospettiva più generale. Mirano a permettere il controllo tecnologico del ciclo dell’acqua per liberare la produzione dai suoi capricci, monopolizzando al contempo una risorsa vitale, destinata a diventare sempre più scarsa, il che finisce per scoraggiare i tentativi di ricostruire forme di autonomia territoriale dissidente. Di fronte al cambiamento climatico e ai movimenti di protesta, i loro promotori sperano di salvare per qualche anno in più l’agricoltura industriale e, quindi, le strutture di dipendenza e di dominio che essa contribuisce a sostenere – e di cui paradossalmente spesso l3 agricoltor3 sono le prime vittime.
L’opposizione ai grandi bacini, al contrario, spinge a delineare un mondo in cui l’agricoltura contadina è impiegata in modo esteso, ben oltre il ruolo a cui è confinata dal sistema attuale – una nicchia di mercato per alimentare la borghesia e una vetrina mediatica. Le attività agricole si intrecciano con altri usi della terra, coinvolgono sempre più abitanti e non sono più organizzate da norme distanti e favorevoli all’agroindustria, né tanto meno da imperativi economici, ma da decisioni collettive e territoriali. 
Il paesaggio, ripiantato con siepi, scavato con fossati e stagni, si frammenta e si diversifica, tessendo nuove alleanze tra umani e non umani. Il “progresso” non consiste più nel sostituire tecnologicamente le dinamiche naturali, ma nel costruire una cooperazione pacifica con esse. I cambiamenti climatici e le siccità si affrontano con gli ecosistemi e non contro di essi, affidandosi più alla conoscenza situata che alla semplificazione gestionale.
Il recupero di forme di autonomia materiale a livello locale, in particolare attraverso la socializzazione del cibo, la riduzione della dipendenza dal mercato e l’allentamento della morsa economica, è essenziale per ricostruire un potere politico che possa incidere sulle strutture che organizzano la convivenza su scala nazionale ed europea. La delocalizzazione e la comunitarizzazione dei processi decisionali e delle attività di sussistenza pone le basi per un mondo ecologicamente sostenibile, dove le interrelazioni tra gli esseri umani e con gli abitanti non umani del territorio sono più dense, più intense e più inclini alla reciprocità. 
È ovviamente semplicistico delimitare in questo modo lo spazio delle possibilità, ma ciò ci permette di misurare meglio la portata della posta in gioco intorno ai grandi bacini. Territorializzandosi, le lotte ecologiste e sociali riacquistano una dimensione fondamentale e primordiale: riguardano la terra, l’acqua, i modi di mangiare e di vivere. Si lasciano alle spalle lo status difensivo in cui sono sempre più confinate e ridisegnano le linee di conflitto al di là delle sole questioni economiche per includere i nostri modi collettivi di essere nel mondo. Questo chiarisce ciò che si tratta di affrontare e distruggere, nonché i modi per costruire nuove alleanze e nuove solidarietà tra contadinə, abitanti, naturalistə, movimenti ecologisti, movimenti sociali, per una svolta massiccia verso forme di agricoltura contadina organicamente mescolate con le specificità sociali, ecologiche e politiche degli ambienti di vita.
Note
1. L’Atelier paysan, Reprendre la terre aux machines,Paris, Editions du Seuil, 2021 ; Christophe Bonneuil, La «modernisation agricole» comme prise de terre par le capitalisme industriel, Les Terrestres, 2021, https://www.terrestres.org/2021/07/29/la-modernisation-agricole-comme-prise-de-terre-par-le-capitalisme-industriel/
2. Léna Balaud et Antoine Chopot, Nous ne sommes pas seuls, Editions du Seuil, 2021.
3. Aurélien Berlan, Terre et liberté, La Lenteur, 2021.
4. Nicolas Da Silva, La bataille de la Sécu, La Fabrique éditions, 2022.