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“Contro il vuoto che avanza… seminiamo conflitti!”

È stato questo lo striscione nato a seguito del primo sgombero di Villa Greco, nel Parco della Caffarella, occupato dalla Laboratoria Ecologista Autogestita Berta Cáceres. Sono passati quasi tre anni da quelle giornate intense e collettive, a cui sono seguite altre due occupazioni e altri due sgomberi… quattro in tutto, se si conta la rotatoria davanti alla stazione Prenestina dove si era trasferita l’occupazione del marzo 2023. Ognuna diversa, ma ognuna animata da un’ampia collettività.

Tanti conflitti, tante relazioni, tante emozioni e soprattutto…. tanti semi!

Sono questi semi che ci auguriamo di veder germogliare nei prossimi mesi e anni, insieme alle attivist3 della Laboratoria che, dopo una bella assemblea, hanno deciso anche loro di “spargersi” a Roma e non solo, proprio come semi capaci di viaggiare per chilometri, e di rinascere lontano dall’albero.

Ci piace pensare alla chiusura di questo percorso entusiasmante non come ad un’implosione, ma come ad un’esplosione, nata dalla consapevolezza e dalla messa in comune delle nostre diversità: di interessi, di percorsi, di scelte, di vite. Ognunx di noi si porterà dietro un pezzetto dell’alchimia vissuta insieme che, come streghe pagane, userà per terrorizzare gli angoli più remoti del potere.

Le occasioni per rivedersi non mancheranno. Rimaniamo in giro, rimaniamo nelle lotte, rimaniamo nelle raccolte fondi per le nostre spese legali, che ci piace pensare anche come ad un’occasione per fare ancora festa insieme. Ringraziamo tutte le persone e le realtà che ci hanno sostenuto e sorretto nelle difficoltà, in una lotta che non è mai stata solo di Berta, ma è sempre stata di tutt3: vogliamo continuare a nutrire e curare le relazioni e i contatti coltivati in questi anni, per pensare e organizzare insieme iniziative benefit, culturali e di lotta.

Berta no murió, se multiplicó

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𝗙𝗘𝗥𝗠𝗜𝗔𝗠𝗢 𝗟’𝗔𝗖𝗖𝗢𝗥𝗗𝗢 𝗧𝗥𝗔 𝗘𝗡𝗜 𝗘 𝗜𝗧𝗛𝗔𝗖𝗔 𝗘𝗡𝗘𝗥𝗚𝗬

𝗙𝗘𝗥𝗠𝗜𝗔𝗠𝗢 𝗟’𝗔𝗖𝗖𝗢𝗥𝗗𝗢 𝗧𝗥𝗔 𝗘𝗡𝗜 𝗘 𝗜𝗧𝗛𝗔𝗖𝗔 𝗘𝗡𝗘𝗥𝗚𝗬

⚠️ENI e Ithaca Energy si uniscono per produrre oltre 100mila barili di petrolio al giorno nel Mare del Nord. Ma attenzione: la britannica Ithaca è controllata dalla isra3li4na Delek Group, nella lista nera dell’ONU per operazioni nei Territori P4lestinesi occupati.

⛔️ Con questo accordo ENI finanzia la gu3rr4. Chiediamo che ENI interrompa immediatamente l’accordo.

Firma ora la petizione

#EniBasta

🔗 https://www.recommon.org/recommon-eni-deve-annullare-laccordo-con-delek-societa-complice-del-genocidio-in-palestina/

🔗 https://actionnetwork.org/petitions/fermiamo-laccordo-tra-eni-e-israele/

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Proiezione di “Erasmus in Gaza” al Baricadero

🍉 Giovedì 4 luglio ci ritroviamo al Baricadero a LOA Acrobax per un nuovo appuntamento estivo.

A partire dalle 19:00 proietteremo “Erasmus in Gaza” (2021, 88′) diretto da Chiara Avesani e Matteo Delbò con la partecipazione del regista.

Il documentario narra della storia del primo studente al mondo, aspirante medico chirurgo di Siena, ad aver fatto un erasmus a Gaza: la scelta del protagonista, coerente con il suo percorso di studi, è dovuta al fatto di voler vedere da vicino l’impatto delle numerose ferite da guerra che l’apartheid israeliano causa da quasi un secolo alla popolazione palestinese.

A seguire cena vegana a cura della TaBerta 🍅

Alle 22:00 musica con djset a cura dei Totem Machine 🏴‍☠️

Sfida il caldo, vieni al Baricadero!

 

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Per il clima, noi abbiamo un altro piano!

PROPOSTE E COMMENTI DELLA RETE ECOSISTEMICA ROMANA AL PIANO CLIMA DEL COMUNE DI ROMA

Scrivere una strategia di adattamento climatico di una capitale di circa tre milioni di abitanti, nel pieno di un’emergenza ecologico-climatica devastante, dovrebbe essere un impegno tutt’altro che marginale. 

Potrebbe quasi essere il risultato più importante della legislatura di un’amministrazione pubblica. Eppure a Roma non è stato così.

A Roma la strategia è stata scritta con modalità e contenuti altamente discutibili. Non c’è stato alcun lavoro di coinvolgimento di associazioni, collettivi e delle tante parti della società civile che lavorano su tematiche ecologiste. 

Si è parlato di partecipazione aperta alla cittadinanza ma ci sono stati solo alcuni incontri poco pubblicizzati, in orari non agevoli e con un’interazione con il pubblico molto limitata.

La strategia è poi estremamente lacunosa: non propone soluzioni concrete per contrastare il consumo di suolo né prospetta una gestione della risorsa idrica che tuteli le acque e i territori né menziona le tante progettualità che vanno in direzione opposta a quello che il Piano dichiara.

Come può infatti un Comune adattarsi al clima che cambia e allo stesso tempo permettere la cementificazione del Pratone di Torre Spaccata, il disboscamento di ettari di verde per lo stadio a Pietralata o la costruzione dell’inceneritore a Santa Palomba?

L’impressione è che l’unica tutela sia quella del “business as usual”, del turismo di massa e della messa a profitto di ogni angolo di territorio.

Come Rete Ecosistemica composta da movimenti, comitati e realtà ecologiste di Roma e Lazio abbiamo inviato al Comune un documento che evidenzia i limiti e le contraddizioni della Strategia, ma ad oggi nessunɜ di noi ha ricevuto una risposta.

Continueremo la nostra battaglia affinché siano cancellati progetti devastanti come il nuovo porto a Fiumicino o l’edificazione dell’area dell’Ex-Snia, e affinché la questione climatica diventi materia di confronto pubblico e di azione politica non di facciata ma reale e concreta.

Invitiamo anche tuttɜ a prendere parte alla Pedalata Ecosistemica del 22 giugno che attraverserà i luoghi di conflitto sociale e ambientale della città.

Per leggere il contributo inviato al Comune:

PianoClima Rete Ecosistemica

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Nove ore in ostaggio a Roma

Giovedí 30 maggio, Klodi Leka, attivista albanese, era invitato a una nostra iniziativa a Roma, a Casale Garibaldi, per parlare di ecologia e turistificazione in Albania, ma anche della retorica di fratellanza con l’Italia e dei CPR che si stanno costruendo per rinchiudere i migranti che giungono in Italia con gli sbarchi nel Canale di Sicilia.

Di seguito il racconto delle violenze subite all’arrivo all’aeroporto di Fiumicino.

L’invito a parlare davanti a un gruppo di sinistra a Roma dei rapporti italo-albanesi mi ha emozionato oltre misura. L’entusiasmo mi ha tenuto inebriato fino al giorno in cui avrei dovuto sfidare l’ansia che mi prende davanti ai confini, le autorità, i controlli, le attese in fila, lo sguardo inquisitorio del poliziotto di frontiera, il pigro parlare nella sua lingua, la verifica tendenziosa del passaporto e la fatica di arrivare all’aeroporto: preoccuparmi se il taxi mi porterà lì in tempo, se ho abbastanza soldi per il grande mondo là fuori, se non ho dimenticato nulla, ecc.

Tolti questi piccoli inconvenienti, il confine mi opprime spiritualmente anche con le immagini che mi passano davanti. Dalla vista lacerata di Kruja [piccola cittadina albanese, ndt] sotto la nebbia delle cave e delle fornaci di calce, ai brividi di vecchie donne radicate nella malinconia del sottosuolo che si trovano davanti all’idea di ascendere al cielo, volando lì dove le creature angeliche di Michelangelo vivono e sperano in un riscatto. Vedo giovani in tuta e volti imbruttiti; ex-profughi nostalgici che si trascinano dietro i figli, senza nostalgia e con un albanese cantante; un nuovo tipo di umanità che negli aeroporti vive tanto liberamente quanto un provinciale coi giorni bruciati nel bar di quartiere. Sento la sordità e l’emicrania che mi procura il volo aereo e, soprattutto, vedo i fumi di una metafisica violenta sopra i luoghi in cui andrò.

Per fortuna, il biglietto numero 18F indicava che mi era stato assegnato un posto vicino al finestrino e il volo sull’Adriatico mi ha bruciato il cervello in un’estasi sfrenata, sperimentando allo stesso tempo il fremito delle ali cerose di Dedalo, le navi pirate illiriche nell’azzurro smeraldo del mare antico, un verso dall’Infinito di Giacomo Leopardi per proseguire con sentimenti campestri alla Ugo Foscolo e poi con la città eterna.

Roma appare incantata dall’alto senz’aria, la Roma di Ovidio, la Roma dei fratelli Gracchi, la Roma dei tronfi lumpen di Pasolini, la Roma di Jep Gambardella, la Roma di una breve visita di dieci anni fa, quando vidi per la prima volta le vecchie rovine e sentii tremare le ginocchia, la Roma di una poesia incompiuta per i fratelli perduti nella notte.

Atterrare all’aeroporto di Fiumicino mi fa rivivere quella vecchia ansia, soprattutto quando noto che i doganieri ci classificano in base ai passaporti: quelli dell’UE da un lato, gli angloamericani dall’altro e, a parte, il branco di albanesi, arabi, asiatici insieme, insieme e frettolosamente, insieme e pazienti, insieme e ammassati. Altre guardie di frontiera dividono poi la mandria in gruppi, secondo il rispettivo sportello, qua e là. Mi portarono al bancone numero 19, dove un giovane ragazzo stizzoso, astioso, poco più che ventenne, disteso comodo dietro il vetro, tormentava con molte domande due donne albanesi e un giovane, che osservai con attenzione mentre arrossiva, si scuriva, diventava giallo e raccontava cose tutto il tempo. Dopo di loro, io. «Dove stai andando?» «A Roma». «Per quanto?» «Per due giorni». «Dove?» «Da una mia amica». «Per cosa?» «Per un incontro sull’ecologia». «Dove sono i tuoi biglietti?» «Qui, nel telef…» «Vieni, vieni dietro di me!» Lo seguo sotto lo sguardo a disagio di una folla di albanesi, cercando di tirar su un sorriso artificiale per quello che potrebbe essere solo un piccolo malinteso.

Ma il sorriso è svanito presto, nessuno se ne curava. All’ufficio della polizia di frontiera trovo una giovane famiglia ispanica le cui valigie vengono disfatte per un’ispezione approfondita. Il ragazzetto vestito da gendarme mi consegna un modulo con domande su chi ero, cosa facevo, cosa volevo lì, che relazioni avevo lì, quanti soldi avevo, dove andavo a dormire, se avevo parenti o qualche lettera di garanzia delle persone che volevo incontrare, tredici domande a cui ho risposto velocemente, sotto la sua presenza tossica. Dopo che ho finito, tira fuori il modulo e mi dice: «hai solo cinque minuti per mostrarmi la prenotazione dell’hotel, il biglietto di ritorno e la carta di credito, altrimenti vai via». Mi siedo e comunico al telefono con la persona che mi ospita. Mi fornisce l’indirizzo dell’appartamento dove alloggerò e trovo nella mail il biglietto di andata e ritorno, ma neanche cinque minuti e lui ricompare gongolante accanto a un poliziotto sulla cinquantina, un tipaccio rude dai capelli rossi. Mentre mostravo loro il biglietto di ritorno insieme con l’indirizzo di alloggio, quasi sotto il mio naso, orgogliosi come avessero intrappolato una preda, mi trattano con paternalismo in una posa sprezzante e mi deridono con discorsi dialettali. «No, non bastano, serve la prenotazione su Booking, verrai rimandato indietro». «Ecco, per favore, potete parlare al telefono con chi mi ospita», dico. «No, parlo solo con te e tu vai via», ha detto e fischiettato, tornando dopo pochi istanti con un documento comprovante che non soddisfo le condizioni di soggiorno e invitandomi a firmarlo. Mi rifiuto e gli dico che non è vero che non soddisfo le condizioni. Mi dice «ok» e nervosamente, con un gesto che si potrebbe tradurre con “ti faccio vedere io”, sparisce al galoppo. «Questo è razzismo», gli dico ad alta voce, in inglese, che ha fatto sì che l’ispanico, fino a quel momento assonnato e quasi invisibile, si mordesse il labbro e mi dicesse di abbassare la voce per non finire peggio, consiglio di un rifugiato rodato che aveva le sue ragioni.

Dieci minuti dopo mi si presenta una poliziotta che mi ordina di seguirla e vedo che mi ha condotto allo sportello dei ritorni. «Per dove?» – Le chiedo. «Per Tirana», mi dice. «Non tornerò a Tirana», le dico, «questo è ingiusto». «Vuoi andare dalla polizia?» – mi minaccia. «Sì», dico, «ci vado». «Sei sicuro?» «Sicuro». «Bene, seguimi!» Raggiungiamo l’ufficio dove si trovava il capo, un uomo di mezza età calvo e scontroso. La poliziotta gli dice che mi sono rifiutato di passare e lui mi risponde con rabbia. Ho le carte in regola, anticipo, mi fermerò solo due giorni, non so perché mi sta succedendo questo. «Tu te ne ritorni», mi sgridò. «Ascoltami», dico. «Te ne vai». «Ascoltami per favore». «Te ne vai». «No, non me ne vado». «Te ne vai». «No, non me ne vado». «Te ne vai». «No, non me ne vado». E la situazione divenne così tesa che se non fosse intervenuta una signora per calmare il sangue, il signore avrebbe ovviamente perso le staffe. La poliziotta mi ha affidato a un poliziotto e mi ha accompagnato alla stazione di polizia dell’aeroporto.

Lì trovo una stazione di polizia tipica come in Albania, sporca e con due poliziotti annoiati, e sembrava sottoterra perché non c’era luce. Mi prendono il telefono con la forza. Sulle panche del corridoio, da una cella vicina, sedevano come statue due giovani iraniani, probabilmente marito e moglie.

Ci salutiamo, gli dico che mi piace la poesia iraniana, il giovane ride, gli dico che mi piace anche il cinema iraniano, ma lui, evidentemente demoralizzato, non continua la conversazione. Le due guardie mi fanno cenno e mi invitano a entrare in una cella stretta, con un vetro grande quanto mezza parete che dà sul corridoio. Poi uno di loro indossa i guanti neri. «Toglitele!» «Che cosa?» «Le scarpe». Le tolgo e loro mi prendono i lacci. «Togliti il ​​maglione», mi dicono. Mi tolgo anche il maglione. «Togliti i pantaloni!» Me li tolgo e loro mi prendono la cintura. «Toglitele!» «Cosa devo togliere ancora?» «Le mutande!» «Le mutande?!» «No, non le tolgo». «Toglile! «No, non le tolgo». «Toglile!» «No, non le tolgo». «Toglile!» «No, non le tolgo». «Siamo uomini», dicono, «toglitele!» «No, gli dico», non me le tolgo, convinto che se mi togliessi le mutande il livello di controllo sarebbe andato ancora più il là, con strizzate di testicoli e, sia mai, dita nel culo. Se vuoi controlla con le mani, dico, ma non mi tolgo le mutande, qualunque cosa accada. Non mi toccano, mi aprono solo la bocca per controllare i denti inferiori e superiori, poi le scarpe, le ascelle e le dita dei piedi. E se ne vanno, chiudendo la porta dall’esterno e lasciandomi quasi nudo, sotto l’occhio di una telecamera di sorveglianza sul soffitto.

Nella cella due lettini tipo sdraio da spiaggia e assolutamente nient’altro. Mi metto a leggere che si scriveva su quei muri vandalizzati e, a parte i geroglifici arabi, una battuta e un insulto in inglese, il resto erano tutti scarabocchi albanesi come “Devi Shkodër”, “Mirjet Hoxha Kala e Dodës”, “Romario da Librazhdi” , “Mama cuore Papà, “Has il fico”, “Kukësi”, un’aquila disegnata malissimo, poi due mani giunte a forma del nostro simbolo nazionale con alcune parole illeggibili. Ho cercato nelle vicinanze e ho trovato un bottone per i lacci della tuta e ho scritto anche il mio nome: “Klodi Leka, 30.5.2024”. Mi siedo sullo sdraio e, pensando a Devin, Mirjeti, Romario da Librazhdi, a tutti quegli albanesi senza lingua e senza soldi che hanno dormito davanti a me su quello sdraio, mi addormento. All’improvviso mi sveglio dai movimenti potenti e mi avvicino alla finestra dove vedo che nel corridoio, sotto il vetro della mia cella, era seduta una giovane donna di colore, dal cui telefono noto che erano passate due ore. Piangeva a dirotto e si stancava a parlare nella sua lingua con i poliziotti che, oltre a non capire nulla, sghignazzavano. Suo marito, un nero molto bello, aveva, per quanto ne sapevo, subito una perquisizione approfondita e ora veniva scortato nella sua cella. L’uomo si sentì così umiliato che non osò guardare la compagna nemmeno quando lo sbatterono nella cella accanto alla mia. A questo probabilmente hanno tolto le mutande, ho pensato mio malgrado, mentre l’albanese era stato probabilmente tollerato in quanto un gradino sopra di loro, i neri della cucina, nella gerarchia del razzismo italiano. La donna nera si voltò verso di me, io le sorrisi di cuore, ma le sue lacrime non si fermarono: scorrevano una dopo l’altra, stremate, grandi, morbide, senza voce e senza lamento, come un fiume, che mi ha ricordato la canzone Cry me a river di Ella Fitzgerald.

In ogni caso, quello che più mi ha sorpreso è che oltre ad essere trattato come un terrorista, o come dice Giorgio Agamben come un Homo Sacer, come una persona sporca e senza diritti, non hanno perquisito il mio zaino, ma semplicemente lo hanno preso e chiuso in un piccolo armadietto di fronte a me. La logica vorrebbe che il primo oggetto di ispezione sia la borsa, luogo dove c’è un po’ più di spazio del buco del culo o dei testicoli per nascondere cose illegali. Ho osservato tutto occhi e orecchie, ma non è stata perquisita nemmeno più tardi, nelle nove ore di attesa in quello spazio tetro e spoglio, dove nessuno mi ha informato del motivo per cui ero detenuto in privazione della libertà e sotto sorveglianza, né mi è stato chiesto se volessi consumare il diritto alla telefonata, all’acqua, al cibo, alle medicine, né come mi chiamavo, né se fossi turbato, semplicemente e anche solo per umanità, nel quadro di due popoli, un mare, un’amicizia.

Evidentemente, non controllando la borsa, ho capito che non erano interessati a trovare nulla, ma a umiliare me, l’individuo albanese, la statistica per il respingimento alla frontiera, il test di laboratorio per i provvedimenti discrezionali, ciò che dà alla polizia la libertà di applicare una procedura molto rigorosa prendendo decisioni arbitrarie.

Per nove ore ho nuotato in quello spazio vuoto congetturando senza riuscire a indovinare quale fosse la mia colpa, accusa, offesa, pensando per tutta la prima ora che non mi avrebbero trattenuto a lungo e che fosse un tempo accettabile per la verifica, nella seconda ora che mi avrebbero messo sull’aereo, nella quarta ora che mi avrebbero addossato una qualche accusa di resistenza all’applicazione della legge. Nella quinta ora ho pensato che mi avevano confuso o sospettato che fossi un’altra persona, con le congetture che alla settima ora andavano, venivano e diventavano paranoie che mi schedassero per alcuni scritti e apparizioni televisive contro le tendenze colonialiste italiane in Albania, per le quali in seguito mi sarei preso in giro senza pietà per aver esagerato il mio ruolo nella storia. All’ottava ora in punto ho cominciato a gridare, a dare calci alla porta, a far graffiare lo sdraio sul vetro, a dire loro che li avremmo battuti come facemmo nel 1920 e nel ’40, e tutto questo, ovviamente in silenzio, nella mia testa.

Verso la nona ora della presa in ostaggio, stufo marcio dell’assurdità di quell’attesa insensata, osservai i poliziotti cambiare turno e mi riappacificai con quel verso di Dante: «Lasciate ogni speranza, o voi ch’entrate». Adesso non volevo nemmeno essere liberato, anzi desideravo con un piacere perverso che ritardassero la prigionia ancora di più, ore, giorni, settimane, mesi, in quell’angolo senza luce dove il tempo e lo spazio non avevano più senso, affinché anch’io potessi esplorare quelle stanze attraverso le quali vicini, cugini, amici e albanesi di ogni tipo hanno trascorso questi trent’anni. Volevo marchiarmi con la feccia del galeotto e del criminale, per essere il cattivo albanese, il barbaro senza cittadinanza, il colonizzato, il ladro d’auto, il fratello meridionale degli anni ’70, esiliato a Ustica e, all’apice di quel sadomasochismo claustrofobico, giacevo schiumante sullo sdraio, dove caddi in un sonno dolce e pesante che, come l’idea di passare due bei giorni a Roma, non era destinato a durare.

Senza tatto, svegliandomi gridando e senza entrare nella stanza, la nuova guardia mi disse di alzarmi e prendere le mie cose. Mi restituirono i lacci, la cintura, il telefono, la borsa e così mi portarono in un ufficio all’ultimo piano dell’aeroporto. Prima ancora che mi fosse consegnato il passaporto, mi lasciarono ad aspettare in un’anticamera in compagnia desolata di due giovani africani. Chiedo al funzionario se mi rimandano in Albania, ma lui, apparentemente sorpreso, mi dice di no, che rimarrò in Italia e che mi accompagna allo sportello, ovvero al Vallo di Adriano, per aver attraversato il quale sono stato trattenuto per nove ore. E a quanto pare, come se mi facessero onore, non mi hanno nemmeno fatto passare secondo l’ordine, dritto per dritto, ma di traverso, quasi di soppiatto, rubandomi anche quel pezzo di gloria simbolica della trave che si ergeva davanti a me per entrare nel cuore del mondo civile, Imperias, Europa, così come mi toccava, come straniero che si suppone abbia acquisito la cittadinanza. Peraltro niente scuse e niente buona giornata per lavarsi la bocca.

Sono fuori, nei labirintici corridoi di un aeroporto che sembra non avere fine, e devo camminare, camminare, camminare non tanto per respirare aria di libertà, ma per fumare una sigaretta, la seconda su dieci ore di umiltà e sottomissione. Confuso, riesco a malapena a trovare la via d’uscita. Quando sono atterrato qui era giorno, adesso è buio e con la connessione internet debole dell’aeroporto, scrivo con Besi, un amico albanese, arrivato dal profondo nord italiano e che mi aspetta. Poi insieme troviamo Stefano, un compagno, italiano, che mi bacia su entrambe le guance, dispiaciuto per quello che mi è successo. Poi troviamo Margot (nom de guerre), compagna, albanese, e con lei il collettivo BERTA, che mi ha aspettato fino a dopo mezzanotte per ascoltarmi e sentirmi. Li ringrazio infinitamente per i loro sforzi per farmi uscire dalle vergognose catacombe dello Stato razzista italiano, che mi hanno dato la possibilità di raccogliere nuove esperienze su Roma e sul movimento della sinistra italiana.

Questo è tutto quello che ho sentito a Roma sotto le fanfare festose della falsa fratellanza italo-albanese, la fratellanza basata sul commercio sporco e sulle lacrime dei profughi africani, che mi ha riconfermato che, al di là delle sciocchezze politiche, noi albanesi possiamo solo essere vicini poveri e sospetti per il nuovo e il vecchio fascismo italiano. Ma l’Italia non è i suoi razzisti. Sono Stefano, Margot, Andrea, Lule, BERTA e i suoi milioni di progressisti.

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22 giugno Pedalata Ecosistemica!

Le lotte ecologiste e territoriali di Roma e del Lazio, i movimenti e i collettivi per la casa e per la salute pubblica e diverse comunità di ciclismo critico si uniscono insieme per una giornata di rivendicazione collettiva.

Il 22 giugno una pedalata “ecosistemica” attraverserà luoghi e vertenze che resistono alle logiche estrattiviste e predatorie portate avanti nella nostra città e nei nostri territori.

La biciclettata inizierà la mattina nel Pratone di Torre Spaccata e finirà al Bilancione a Fiumicino, passando per Quarticciolo, Stazione Prenestina, lago Bullicante dell’ex Snia, Quattro Stelle, Pietralata, luoghi simbolo di una resistenza contro la cementificazione dei territori, contro la privatizzazione dei beni comuni, contro la messa a profitto di ogni servizio che dovrebbe invece essere universalmente garantito.

Nel ritrovarci, rumoros*, colorat* e ribell*, rivendicheremo uno stop immediato al consumo di suolo e alla cementificazione dei territori, l’acqua come bene comune, casa salute e ambiente per tutt*

🚲 Ci vediamo il 22 giugno

A breve info più dettagliate sul percorso e sulle tappe della biciclettata.

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La Foresta in Cammino

Riceviamo e ripubblichiamo l’appuntamento lanciato dal Lago Bullicante ExSnia, Si al Parco Si all’Ospeale No allo Stadio e dal Comitato Pratone di Torre Spaccata – per il Parco delle Ville Romane per mercoledì 5 giugno a difesa degli ecosistemi della città.

MERCOLEDI’ 5 GIUGNO GIORNATA MONDIALE DELL’AMBIENTE
LA FORESTA SI RIMETTE IN CAMMINO
Dal LAGO BULLICANTE al CAMPIDOGLIO con TUTTE LE FORESTE DELLA CITTA’
–  Ore 9.00 Lago Bullicante accoglienza
con i trampoli e i girasoli del Duo Imaginaerum e il laboratorio di serigrafia del De Lollis (porta una maglietta per su cui stampare il Germano del Lago che Combatte)
Partenza ore 10.30
Arrivo ore 12.30 Campidoglio

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Nella Giornata mondiale dell’ambiente, dobbiamo farci di nuovo NOI FORESTA, e andare in Campidoglio, sede del governo di Roma, città in emergenza climatica.
Abbiamo l’intenzione di incontrare il Sindaco Gualtieri per consegnargli una lettera aperta con delle richieste chiare del territorio per fatti concreti. Vogliamo che:
– vengano azzerate le previsioni EDIFICATORIE e CONSUMO DI SUOLO, recuperando il PATRIMONIO EDILIZIO esistente;
– venga dato spazio a BOSCHI URBANI ed ECOSISTEMI NATURALI, rimedi fondamentali contro INQUINAMENTO ed ISOLE DI CALORE;
– si investa e si privilegi una MOBILITA’ PUBBLICA, EFFICIENTE, LEGGERA e SOSTENIBILE.
A piedi, in bicicletta, con i pattini o i monopattini, uniamoci a fonti, laghi, stagni, boschi e praterie, insort*, con la loro unica e imprevedibile bellezza, tra le pieghe della città umiliata e vandalizzata da cemento e speculazione.
PER FERMARE CONSUMO DI SUOLO, CEMENTO, INQUINAMENTO E AVERE UNA CITTA’ CON PRATI, ALBERI E BOSCHI URBANI.
Partenza alle ore 10.30 con questo percorso:
– Scuola G.Cesare – via Alberto da Giussano
Scuola E.Toti – via del Pigneto
Scuola Di Donato – via Bixio
Punto di incontro alla Stazione Metro B Colosseo ore 12.00
Arrivo in Piazza del Campidoglio ore 12.30
PER REALIZZARE LE MASCHERE E LE FORME DELLA FORESTA APPUNTAMENTO MARTEDI’ 4 GIUGNO DALLE ORE 17 PRESSO LA CASA DEL PARCO DELLE ENERGIE
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Pavarësi! Contro il colonialismo italiano in Albania – dai CPR al turismo

La gestione securitaria e criminale dei migranti nel Mediterraneo ha fatto un salto in avanti nella gara a chi si sporca di più le mani. Il recente accordo tra il primo ministro albanese Edi Rama e Giorgia Meloni ha infatti cavalcato un rapporto coloniale di ben vecchia data (quello dell’italia verso l’Albania) per dare luce a un nuovo ibrido che definire mostruoso sarebbe un errore – in quanto specchio invece della nostra più familiare e quotidiana realtà. Come in ogni rapporto coloniale che si rispetti, infatti, il governo Rama mette in pericolo la sovranità nazionale albanese per stringere dubbie alleanze che possano favorire un altrettanto dubbio ingresso del paese nell’UE, garantendo invece ben concreti guadagni a aziende e cooperative che della gestione dei migranti (o meglio, della loro tortura e reclusione) sta facendo una miniera d’oro. Il modello dei CPR (centri di permanenza per i rimpatri), sempre più diffuso in italia negli ultimi anni, verrà infatti presto copia-incollato in due località nel nord dell’Albania (Gjadër e Shëngjin) e posto sotto la giurisdizione e il controllo delle autorità italiane.

Anche se questo può sembrare in diretta contrapposizione con gli interessi della turistificazione galoppante, soprattutto del lontano sud del distretto di Valona (meta sempre più ambita dai turisti che come locuste invadono destinazioni cheap, ma che verranno sempre più delusi dai prezzi costantemente in crescita), la costruzione dei CPR e il turismo distruttivo che si sta verificando in Albania in questi ultimi anni si configurano come due facce dello stesso processo di neocolonizzazione, imponendo un modello di sviluppo che fa della distruzione degli ecosistemi locali e del prosciugamento delle venature idriche la garanzia di guadagno per chi, più o meno illegalmente, mette le mani per primo su quel che rimane dei territori rurali e non antropizzati dei margini d’europa.

Di tutto questo e molto altro parleremo giovedì 30 maggio a Casale Garibaldi (via Romolo Balzani, 87, Roma – Centocelle), che ringraziamo per l’ospitalità. A partire dalle 18:30 interverranno:

– Rete “Mai più lager – No ai CPR” (italia)
– Zanë Kolektiv (giovani diaspora albanese in italia)
– compagno da Tirana, Albania (Lëvizja Bashkë)

…con a seguire dibattito.

alle 21:00 ci sarà la cena come sempre vegana a cura della TaBerta.

a seguire, alle 21:30, proietteremo il documentario “Ndaloni aeroportin!” (“Fermate l’aeroporto!”) a cura di PPNEA (Protection and Preservation of Natural Environment in Albania), organizzazione, tra le altre realtà, che si sta occupando del contrasto alla costruzione dell’aeroporto internazionale di Valona, una delle numerose infrastrutture in costruzione volte alla sempre più intensa massificazione del turismo, che andrebbe a distruggere l’ecosistema del parco nazionale protetto del fiume Vjosa.

NO LAGERS – NO TOURISTS
vi aspettiamo!

Casale Garibaldi è uno spazio di produzione culturale, mutualismo e sindacalismo sociale, che si trova sotto attacco della burocrazia neoliberale: migliaia di euro di spese legali pagate e da pagare. Sostenere l’autogestione significa difendere la città pubblica e i diritti di molt@ contro gli interessi di pochi.

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Far finta di esserne fuori – con Filo Sottile

CONTRO TUTTE LE GABBIE

Venerdì 19 aprile a partire dalle 18:30 al CSOAT Auro e Marco, Laboratorio Femminista del CSOAT e L.E.A Berta Caceres presentano “Far finta di esserne fuori”, spettacolo a cura di Filo Sottile. 

A seguire buffet veg a cura della TaBerta e musica:
LUD (chitarra)
MAYA (rap)
GONORREA (tekno)

Voi vi sentite al sicuro nelle vostre tiepide tane. Voi che da voi potete procurarvi il cibo caldo e godere di visi amici: considerate la vita in gabbia. La vita di chi sta nella penuria di spazio e aria e luce;la vita cattiva, che di contatto e parole ha fame; che pende e oscilla al vento mutevole di un sì o no; che deve penare per meritare di esistere e fornire prove di merito per alleviare la pena. Considerate voi le mura e le sbarre che si chiudono su corpi e nomi, vite congelate e occultate, orizzonti svuotati, il ghiaccio del controllo, il fuoco della costrizione.
Meditate che gabbia e carcere e reclusione sono realtà e non solo parole. Meditate qual è il prezzo e il privilegio di starne fuori. Meditate se davvero ve ne potete chiamare fuori.
“Far finta di esserne fuori” è uno spettacolo di monologhi renitenti e canzoncine di evasione della punkastorie Filo Sottile. Una requisitoria antica, ukulele e voce, sul nostro presente securitario, con in mente una concretissima utopia: abolire il carcere è possibile ed è giusto.


Lud, frocix trans e terrone. Tra assemblee e cortei, scrivo canzoncine post-romantiche per stare bene.

Maya. Anafem, classe 1996, transovversiva in continua contaminazione, si immerge nella cultura hiphop portandone avanti gli ideali di unità, amore e sorellanza. Il suo transgender militant rap, spazia tra varie sonorità tutte travolte dalla rabbia e dal desiderio di rivoluzione che contraddistinguono le lotte e le piazze contemporanee e non.

gonorrea – GOduriosa antiNORmative REAction – è un calore sonoramente trasmesso dal batterio BPMmis Incontrollabilis. A livello mondiale, è il secondo effetto sessuale desiderato più diffuso dopo l’orgasmo multiplo.  gonorrea è improvviso sculettare e pestare i piedi a ritmo, atterrando il patriarcato. da febbraio di quest’anno inizia a farsi strada alle feste di mezzo mondo, aka le favolose provincie di bari, napoli e sporadiche periferie tedesche.
gonorrea è promiscuità di genere che – a seconda del livello giusto di umidità e temperatura – va dalla reggaeton alla tekno.

 

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Colonialismo Made in Italy. Eni, Snam, Acea: il ruolo dell’ estrattivismo italiano nel conflitto in Palestina

A 6 mesi dall’inizio del genocidio israeliano in Palestina, con il piano sionista di annientamento della popolazione Gazawi sempre più reale e una cornice mediatica sempre più allineata agli interessi politico-economici israeliani, diventa necessario moltiplicare i momenti di contro narrazione dal basso e di autoformazione per leggere la guerra anche come strumento di monopolio sulle risorse.

Una lettura che contestualizzi la fase attuale nel piano storico del colonialismo sionista di espropriazione delle terre palestinesi, in un quadro geopolitico più largo di interesse sulle risorse dell’area da parte delle multinazionali occidentali, dove le multinazionali a partecipazione pubblica italiane giocano un ruolo di primo piano. I giacimenti di gas e l’acqua sono al centro degli appetiti dell’estrattivismo made in Italy, che alimenta e beneficia del massacro del popolo palestinese.

Ne parleremo dalle ore 11:00 con:
ReCommon: quali sono le mire estrattiviste di ENI e SNAM?
BDS: campagne di boicottaggio e rapporti Iren-Mekorot e Chevron-Siemens
Aggiornamenti sulla situazione in Palestina

Dalle 13:00 ci sarà il pranzo BENEFIT spese legali a cura di Osteria scuppiata anticapitalista itinerante

e a seguire Back to the blues! duo live Dealing with the Blue

Vi aspettiamo a via del Frantoio 9C / Tuburtino III