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Voi G7, noi GSIM! Idee e pratiche di lotta verso il G7 in Puglia

 

La Puglia, fiore all’occhiello dell’iperturistificazione italiana, è stata scelta quest’anno come sede del G7 il 13, 14 e 15 giugno nell’esclusiva location di Borgo Egnazia, in valle d’Itria. Una notizia che ci fa sussultare ma non ci sorprende.

E’ già da qualche anno che il processo di gentrificazione e riqualificazione spietata non fa che approfondirsi, facendo il paio con un’ emergenza abitativa che vede raddoppiare gli sfratti negli ultimi due anni e con una precarizzazione generalizzata, ancor più per il lavoratori e le lavoratrici del settore turistico e della filiera agricola.

E mentre un turista divora pesce crudo nel suo trullo ristrutturato, si acuiscono i conflitti socio-ambientali e si rendono manifeste le più violente contraddizioni: dalla presenza dell’Ex Ilva ed Eni, passando per Tap/SNAM che stanno rendendo il Salento e non solo, un hub del gas, arrivando alle molteplici discariche di rifiuti ed inceneritori come quello che si vorrebbe realizzare a Bari, fino ai più recenti progetti come l’autopista Porsche a Nardò.

Così in Puglia, come in tutto il mezzogiorno, si esaspera la crisi socio-ecologica e climatica.

L’esigenza da parte delle collettive e delle soggettività meridionali è stata, ancor prima di fronteggiare questo ennesimo saccheggio di risorse, provare a costruire sia una piattaforma rivendicativa delle lotte sia uno spazio assembleare che sperimentasse pratiche di cura, decolonizzazione e decostruzione di linguaggi, restaurando il legame emotivo-politico che ci porta a difendere le nostre terre e le nostre vite.

Un coordinamento che faciliti la convergenza verso nuove pratiche basate sulla cura e il mutualismo tra le nostre comunità: GSim.

Per generare nuove reti di solidarietà e lotta incontreremo l3 compagn3 dell’assemblea Terronae unitae in lotta venerdì 23 febbraio alle h-18:00 al LOA Acrobax per un’asemblea aperta e per una gustosa cenetta a cura della TaBerta.

Con coordinamento GSIM, Zamp3 mostruos3, XR puglia, FFF Bari, Custodi del bosco Arneo

Menù veg a cura della TaBerta:

  • antipasto: vellutata di broccolo e cavolfiore + crostini
  • primi: pasta GSIM alle cime di rapa + opzione bimb3
  • secondi: frittata di farina di ceci con patate, scarola ripassata uvetta & capperi

Prenota! Scrivici su bertacaceres@autoproduzioni.net

 

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Colonialismo Green: voci dall’East Africa

Continuano gli approfondimenti sul colonialismo green in Africa verso l’evento di DOMENICA 18 febbraio alle 16:00, dove ne riparleremo a Casale Alba Due con l’intervento di:
– David Chemtai della comunità Benet Mosopisyek del Monte Elgon (Uganda);
– Teresa Chemosop Cheptuit della comunità Ogiek del Monte Elgon (Kenya);
– Kipchumba Rotich della comunità Sengwer della foresta di Embobut (Kenya);
– Fiore Longo (Survival International) – Carlotta Indiano (giornalista)

La Cop 28 di Dubai del sultano petroliere Al Jaber è terminata da tempo ormai. La Cop che verrà ricordata per aver ospitato il maggior numero di lobbysti dell’industria fossile di tutte le edizioni precedenti, 2456 presenti. La Cop che è stata definita della “reazione fossile”, per la strenue resistenza del comparto fossile, sotto il flebile attacco delle politiche per il clima. Nella serie degli scandali iniziali, tra i grandi temi del phase out dalle fonti fossili o del fondo loss and damage per i paesi del Sud globale più colpiti dalle crisi, passano nella sordina dei giorni iniziali della Conferenza le dichiarazioni della presidente della Commissione europea Ursula Von der Leyen, programmatiche per il corso della Cop:

“Sappiamo tutti che se vogliamo mantenere il riscaldamento globale al di sotto del punto critico di 1,5 gradi dobbiamo ridurre le emissioni globali. Ed esiste un modo per ridurre le emissioni, promuovendo al tempo stesso l’innovazione e la crescita: dare un prezzo al carbonio. E’ uno strumento guidato dal mercato.” La missione Ue a Dubai ha lo scopo di “dare impulso a questo movimento globale. Lo scorso giugno a Parigi abbiamo lanciato un appello all’azione per creare piu’ mercati del carbonio in linea con l’accordo di Parigi. Oggi si uniscono a noi l’FMI, la Banca Mondiale e il WTO. Avete un ruolo essenziale nel sostenere e incentivare il cambiamento”.

La Presidente della Commissione Europea alla Cop ci restituisce, in maniera inequivocabile e programmatica, le due facce del concetto di “cambiamento” portato avanti dalla UE. Nella Cop egemonizzata dagli interessi del comparto Oil & Gas in cui si impone una narrazione sulla decarbonizzazione dei settori produttivi, sulla riduzione delle emissioni e sulla mitigazione degli effetti delle crisi climatiche tutto incentrato sulla finanza per il clima, le cosiddette Market Based Solutions, la faccia del fantomatico cambiamento in mano solo al mercato diventa chiarissima. Vengono messi al centro degli accordi per il clima i progetti per la vendita dei crediti di carbonio, le soluzioni che non intaccano la crescita, il business as usual, e anzi tentano di finanziare la transizione green creando occasioni di profitto e di espansione economica, mettendo in mano alla selvaggia libertà di mercato le sorti della convivenza globale. Queste soluzioni sono necessaria conseguenza del pilastro delle politiche per il clima che l’IPCC ha definito “net zero”o carbon neutrality, per il quale le emissioni di CO2 e gas a effetto serra di origine antropica devono essere bilanciate o compensate dalla CO2 che viene rimossa dall’atmosfera con delle tecniche di stoccaggio. Di fatto questo concetto di compensazione (offsetting) non ha nulla a che fare con un sistema di limitazione della sfera della produzione e del consumo, che punti alla limitazione dello sfruttamento delle risorse. La cornice della decarbonizzazione attuale, sospinta dalle ultime Cop, si fonda sulla compensazione e non sulla riduzione delle emissioni, con le cosiddette Soluzioni Basate sulla Natura, progetti atti alla conservazione e al ripristino degli ecosistemi per limitare la presenza nell’atmosfera dei gas serra, come i REDD + (Reducing Emissions from Deforestation and forest Degradation) progetti presenti soprattutto nel Sud globale, per diminuire gli effetti della deforestazione attraverso la conservazione delle foreste, e in ultimo con progetti per la rimozione dall’atmosfera di anidride carbonica CDS (Carbon Dioxide Removal) con riforestazione e altro. Questi progetti una volta costituiti e con una comprovata efficacia nell’assorbimento di CO2, possono iniziare a vendere dei titoli finanziari, i crediti di carbonio. Un credito emesso rappresenta la rimozione, la riduzione o l’evitamento di una tonnellata di CO2 (o di una quantità equivalente di altri gas serra). Questo permette alle grandi aziende e agli stati che emettono gas serra, quindi soprattutto all’Occidente bianco e ricco, di compensare le tonnellate emesse, finanziando progetti di conservazione della natura o riforestazione nel Sud globale, salvandolo, così dicono, dagli effetti della crisi crisi climatica da cui è maggiormente afflitto, utilizzando peraltro un criterio esclusivamente quantitativo di compensazione dalla comprovata inefficacia, ma che soprattutto permette di lasciare invariati i tassi produttivi e di profitto del sistema economico capitalistico, che ne sono la vera causa ultima.

Dipti Bhatnagar, coordinatrice del programma sulla giustizia climatica di Friends of the Earth International, alla Cop26 di Glasgow di due anni fa affermava: “il net zero e i mercati di carbonio non sono altro che una scusa per i paesi ricchi e per le imprese responsabili della maggior parte delle emissioni globali di continuare a produrre, consumare e emettere senza dover rivedere le loro politiche di riduzione. Inoltre, il sistema di compensazione di emissioni è solo un modo per trasformare la natura in un oggetto economico, da vendere come offset (compensazione) e come quota di mercato del carbonio. Ma su quali terre e nelle foreste di chi hanno intenzione di farlo?”

La risposta a questa domanda arriva dall3 compagn3 africane in lotta contro questi progetti. Le parole che vengono dalle stanze del potere di Dubai o da quelle di Glasgow fanno il paio con le notizie che le comunità degli Ogiek della foresta di Mau in Kenya o l3 compagn3 Mosopisyek di Benet dall’Uganda ci danno, dei continui sgomberi che le loro comunità stanno subendo dalle loro terre ancestrali per far spazio a progetti di conservazione. Dalle loro voci in lotta, Eunice Chepkemoi, della comunità degli Ogiek di Mau e delle East Africa Women Led Assemblies:

“ E’ il governo che fa affari con il nostro ecosistema, la nostra terra, disconnettendoci da essa. Il Presidente ha dichiarato le intenzioni del governo di appropriarsi della foresta di Mau espellendo gli Ogiek di Mau. E’ comprovato che finanziamenti e progetti legati alla crisi climatica stanno alimentando questi sgomberi. La comunità sta soffrendo enormemente per queste azioni.” Un altro attivista aggiunge: “ Gli organi che governano le foreste del Kenya si aspettano di guadagnare molto da queste azioni. La foresta di Mau è la più grande del Kenya e per noi è chiaro che l’interesse mostrato dalle compagnie che vendono le compensazioni sta spingendo il governo ad appropriarsene. Gli Ogiek sono le prime vittime di queste false soluzioni per il clima che giustificano gli attuali sgomberi ed emissioni di CO2.”

Ed è infatti proprio in Kenya, nella cornice dell’ultimo African Climate Summit a Nairobi, che sono stati presi determinanti accordi per l’incentivo alle forme di compensazione del carbonio attraverso il mercato dei carbon credits, fortemente voluti dai governi del Nord globale. L’illuminato presidente ecologista keniano William Ruto ha firmato accordi, assieme a Liberia, Tanzania, Zimbabwe, con la Blue Carbon di Dubai, agenzia di certificazione di carbon credits, legata alla famiglia reale emiratina. Una concessione di terre di 24 milioni di ettari, per costituire progetti di stoccaggio di CO2 attraverso riforestazione o conservazione delle foreste, accusando falsamente le comunità locali del degradamento di quest’ultime. Questi accordi che alimentano nuovi processi di appropriazione diretta, enclosure di terre comuni indigene, parlano delle comunità che resistono agli espropri delle loro terre ancestrali e alimentano le false soluzioni per il clima nelle mani delle compagnie private o di stato che, incentivate dalle grandi ONG della conservazione come WWF o WCS, creano le condizioni per il capitalismo in crisi di continuare processi di estrazione di valore dalla terra e dalle comunità anche attraverso i mercati finanziari, con una nuova cornice ideologica salvifica a darle manforte, le politiche ONU per la mitigazione degli effetti della crisi climatica.

Questa la bella faccia del capitalismo a marca green che rende ancora più chiaro come concetti quali, sostenibilità, mitigazione e decarbonizzazione siano risignificati e sovvertiti in nome di un nuovo colonialismo green che espande le frontiere dell’estrazione di valore dalla natura e dello sfruttamento, per una nuova fase di accumulazione originaria di terre comuni ricche di risorse, cosicchè le grandi compagnie emettitrici del Nord del mondo possano continuare a farlo, con un occasione di profitto maggiore, ripulendo peraltro la loro immagine con la maschera di vendere prodotti a net zero emissions, scaricando sia le conseguenze più devastanti della crisi climatica che generano che quelle violente della conservazione della natura sul Sud globale.

La faccia del capitalismo green contemporanea si presenta con lo stesso ghigno di chi offriva perline di plastica nel Congo Basin per avorio e oro, in un dialogo attualizzato tra il colono e il colonizzato: porteremo lo sviluppo sostenibile, energia pulita, soldi della World Bank e il sostegno spassionato delle ONG della conservazione, porteremo masse di turisti dai cappelli a tese larghe e che amano gli animali più che i loro figli, ma non vi preoccupate non vi daranno fastidio dalle loro torri d’avorio dei resort di lusso; in cambio dateci le vostre foreste e noi vi faremo fare profitti dalla vendita dei carbon credits vi insegneremo come cucinare in maniera più efficiente e green e come allevare il vostro bestiame in maniera più sostenibile; vi mostreremo che piantare delle monoculture, delle immense foreste di soli pini ed eucaliptus, farà bene al pianeta e alle vostre economie locali; vi diremo di smetterla di cacciare per sostentamento gli animali della savana, lo faremo noi per voi, e meglio di voi nelle nostre Game Reserve dove faremo soldi coi cacciatori bianchi.

Se da un lato le tante milizie africane al soldo delle Ong bianche della conservazione uccidono le comunità indigene in difesa delle loro terre, e se i presidenti conniventi con gli interessi del Nord globale firmano accordi voluti dalle Cop per il clima e dalle aziende Oil & Gas, un fronte resistente a fianco delle compagne indigene di tutto il mondo si opporrà oggi e sempre ai falsi accordi per il clima, occasione di profitto per le aziende private; i responsabili delle cause strutturali delle crisi globali non ne saranno mai la possibile risoluzione.

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La nuova maschera del predatore occidentale è di colore verde

Sono passati pochi giorni dalla fine del summit Italia Africa per il “Piano Mattei” e dell’ approccio “non predatorio” dichiarato da mesi non c’è traccia. Si è parlato di sicurezza energetica per l’ Italia e di controllo dei flussi migratori, traduzione: estrattivismo colonialista delle risorse fossili e ulteriori accordi per la militarizzazione delle frontiere. Questa relazione di dominio neocolonialista non è una novità e non solo frontiere, oil&gas sono al centro di questa dinamica. La nuova maschera del predatore occidentale è di colore verde.

Il 2 novembre il governo kenyota ha sgomberato brutalmente persone appartenenti alla comunità Ogiek dalla foresta di Mau. Polizia e guardia parco hanno bruciato case, sparato e usato gas lacrimogeni in nome di una conservazione della natura che trova ispirazione dalla creazione dei grandi parchi degli Stati Uniti sulle terre degli indiani d’ america. Le persone indigene, secondo questo approccio, sarebbero una minaccia per lo stesso ecosistema che hanno conservato per secoli e che vengono svuotati dalla loro presenza, recintati e difesi militarmente. L’ unico accesso possibile ha un ticket da pagare per i turisti bianchi appassionati di documentari naturalistici e di Jane Goodall.

La storia dei Mau non è un caso isolato ma è in comune con altre aree dell’ East Africa, e del resto del sud globale.
Dal monte Elgon in Uganda arrivano ancora oggi notizie della violenza che viene riservata alla popolazione dei Benet Mosopisiek. Pallottole su persone e animali sono il trattamento che riceve chi torna nella foresta anche solo di passaggio.

Queste violenze hanno una mano bianca e parole occidentali a legittimarle. Il WWF e altre ong della conservazione sono complici degli obiettivi di compensazione della CO2 che sono stati discussi nel recente Africa Climate Summit 2023 di Nairobi e nella COP28 di Dubai. Il mercato dei crediti di carbonio è il mandante di questi progetti che prevedono moltiplicazioni delle aree naturali militarizzate.

Ancora una volta le soluzioni al cambiamento climatico sembrano solo nuovi modi fantasiosi e coloniali di fare profitto e allontanare sempre più in là l’uscita dalle fonti fossili.
Ma del resto, chi è causa del nostro male non avrà soluzione che per sé stesso.

DOMENICA 18 FEBBRAIO, h. 16
🏡 Casale Alba Due
Parleremo anche di questo con attivist3 ingigen3 dall’ East Africa, Irpi media e Survival International.
⚡️Stay tuned per gli aggiornamenti

 

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A fianco degli scioperi nella logistica – contro i licenziamenti di Leroy Merlin

Oggi eravamo a fianco dell3 lavorator3 del S.I.Cobas che da Piacenza si sono mobilitat3 per fermare, fin dalla prima mattina, la circolazione dei camion a Leroy Merlin di Colleferro. E’ da alcuni giorni, infatti, che l’azienda ha deciso di lasciare a casa, da un momento all’altro e indipendentemente dal contratto, 500 lavorator3 che appartengono per lo più a famiglie numerose e monoreddito, mettendo quindi a rischio la vita di migliaia di persone.

Abbiamo più volte affrontato il tema della logistica, settore in espansione da vent’anni in Italia dove lo schema appare sempre lo stesso: aziende straniere multinazionali arrivano in luoghi dove possono sfruttare, da un lato, manodopera migrante (che è la stragrande maggioranza della composizione facchina nella logistica) spesso ridotta in una condizione pressoché totale di caporalato, come accadeva nel piacentino fino alla ribalta del S.I.Cobas quindici anni fa.

Dall’altro, a fronte di istituzioni locali completamente incapaci di tutelare il paesaggio, queste multinazionali possono profittare di una “natura a buon mercato” dove costruire magazzini a perdita d’occhio e infrastrutture dedicate alla movimentazione di merci su gomma, che hanno completamente sfigurato intere aree dello stivale, come sta succedendo nel Lazio, a Colleferro, e come è successo in Pianura Padana, uno dei territori più inquinati d’Europa (dove non a caso è scoppiato il primo focolaio di COVID-19) e con tra i più alti casi di tumore agli organi di filtro, dove si accumulano cioè le tossine assorbite dall’ambiente.

Non solo queste aziende possono sfruttare l’ambiente senza l’obbligo di ridistribuire le ricchezze dal punto di vista fiscale (facendo capo per il fisco ad altri Stati), ma possono anche scaricare senza restrizioni le cosiddette “esternalità negative” (inquinamento dell’aria, cementificazione del suolo, inquinamento delle acque, ecc.), che fanno pagare all’ambiente e alle popolazioni locali il peso del fallimento totale di questo modello di sviluppo, che crea vere e proprie zone di sacrificio, come già era Colleferro e come sta diventando il territorio piacentino.

Spesso una scusa che le istituzioni locali e le aziende usano per legittimare la devastazione della salute umana e ambientale è quella della creazione di posti di lavoro, argomentazione che crea degli aut-aut evidenti come scegliere tra morire di fame o morire di malattia. Non solo: nel momento in cui, attraverso la sindacalizzazione e i processi di lotta dell3 lavorator3 si riescono ad ottenere miglioramenti delle condizioni di lavoro e aumenti salariali e, di conseguenza, le aziende non riescono più a basare i loro profitti miliardari sulla schiavizzazione di corpi e territori, decidono bene di attuare licenziamenti di massa per spostarsi in nuovi territori da ipersfruttare.

E’ infatti quello che è successo nel magazzino di Leroy Merlin a Piacenza, dove l’azienda francese ha provato ad attribuire la chiusura del magazzino di Castel San Giovanni (PC) al disservizio dell3 lavorator3. Questa affermazione è stata presto sfatata: si tratta infatti di uno dei magazzini più efficienti al mondo, dopo quello in Francia e in Canada. Sul quotidiano locale di Piacenza, un dirigente ha di seguito affermato che la chiusura è dovuta a un fallito investimento di 24 milioni di euro per la costruzione di una pick tower (un grande macchinario alto decine di metri utilizzato per lo smistamento dei pezzi) che però, ancora dopo anni, non funziona in quanto Leroy Merlin non si è ancora dotata di un software per utilizzarla. Per questo motivo, dunque, sono avvenuti i licenziamenti e la merce è stata direzionata quindi nell’unico altro magazzino in Italia, ovvero quello a Colleferro.

 

In relazione a questo l’azienda ha provato ad aprire altri tre magazzini nel Nord Italia per rimpiazzare quello di Piacenza: il sindacato ha dunque chiesto, in questi magazzini, buste paga di livello 4, corrispondenti alla mansione svolta nel magazzino di Piacenza, mansione che all’azienda veniva a costare 2200 euro al mese, laddove nei nuovi magazzini costa 1100 euro, ovvero la metà, permettendo all’azienda di risparmiare 7 milioni e 700 mila euro. Se, quindi, Leroy Merlin ha dichiarato 24 mln di perdita, ovvero i soldi del cattivo investimento della pick tower, appare dunque chiaro che in tre anni l’azienda vorrebbe rientrare del suo errato investimento scaricandone interamente i costi sulla mano d’opera.

Questo è solo un esempio di come un settore in espansione come quello della logistica abbia un impatto devastante sia sulle vite dell3 lavorator3 che sulla salute dei territori, definendo una unione negli interessi delle parti sfruttate che andrebbe quanto più colta da un punto di vista ecologista. Se, infatti, gli appelli alle istituzioni locali si rivelano pressoché inutili, in quanto spesso colluse con gli interessi delle multinazionali, l’unico modo per fermare e rallentare la crescita esponenziale di un settore così devastante ha preso forza dall’interno: i cicli di lotte nella logistica che hanno creato un fronte di conflitto così importante praticano, infatti, un blocco materiale della circolazione delle merci che ha saputo più volte creare perdite miliardarie alle aziende, colpendole nel vivo della loro macchina di sfruttamento e allontanando nuovi investimenti che sfruttano la “natura a basso costo” e creano territori inquinati.

Sostenendo dunque le lotte dell3 lavoratric3, per lo più migranti, della logistica, non solo si pratica quella intersezionalità tra lotta di classe e antirazzismo che contrasta la schiavizzazione e il ricatto dei corpi non bianchi, ma si pratica anche una intersezionalità con le istanze ecologiste che necessitano di ripartire dai territori sfruttati per impedirne concretamente la continua devastazione. Per questo motivo è utile sostenere i prossimi scioperi e invitiamo tutte le realtà che vorranno a distribuire il volantino che alleghiamo in tutti i negozi Leroy Merlin presenti nei territori.

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Manifestazione NO BASE contro l’infrastruttura della guerra

Ieri un corteo popolato e determinato chiamato dal Movimento No Base ha attraversato San Piero a Grado (Pisa) per segnare un appuntamento nazionale contro un sistema mortifero che fa dell’infrastruttura della guerra il suo motore.

La manifestazione si è svolta compatta sotto la pioggia incessante e con interventi da numerose realtà, le quali hanno rimesso il punto su come per fermare le guerre in corso (come quella che Israele sta svolgendo ad armi impari contro la Palestina) occorra materialmente bloccare quell’infrastruttura della guerra che coinvolge non solo le basi militari, ma anche gli interessi del fossile, la gestione degli aeroporti, la distruzione degli ecosistemi, l’utilizzo dei rigassificatori, i legami delle forze armate con le università e le scuole.

È infatti evidente che una progettazione coordinata delle guerre da parte di enti locali, governo e industria delle armi sta svolgendosi sotto i nostri occhi, dove i conflitti, sempre più capillari e diffusi, vengono preparati attraverso un fitto intreccio di interessi nazionali e transnazionali a cui occorre quanto mai contrapporre un blocco compatto e popolare in grado di fermare l’escalation.

Fermare l’escalation è infatti la parola d’ordine del corteo che, alla fine del suo percorso, si è diretto verso la base del CISAM (base specializzata nello sfruttamento dell’energia nucleare a fini militari) nel parco protetto di San Rossore per tagliare le reti e liberare l’area boschiva costretta dentro il filo spinato e che rischia di essere distrutta.

Si è dato quindi un primo assaggio di determinazione alle forze dell’ordine, ovviamente schierate a difendere gli interessi della morte e della guerra, invadendo l’area e dando voce alla rabbia della gente stanca di morire di lavoro e di malattia per sostenere la loro economia di guerra.

Gli enti locali e il governo continuano a voler rendere la Toscana un hub della guerra, dove si preparano le condizioni materiali e logistiche per andare a uccidere, in Palestina e in altri luoghi: per questo motivo occorre agire affinché queste condizioni necessarie alla guerra vengano meno, affinché le guerre si possano impedire e fermare dall’interno!

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Lotte in difesa dei territori

Golfista eco-terrorista. I misfatti della Rydercup 2023

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RYDER CUP – IL VOSTRO LUSSO CI LASCIA A SECCO

Questa mattina un grande dispiegamento di forze dell’ordine è stato messo a disposizione della Ryder Cup, un evento privato largamente finanziato con fondi pubblici: 60 milioni di euro regalati al tempo dal governo Renzi e ulteriori 97 milioni di euro in fidejussione, finalizzati per il rifacimento di un campo da golf nei terreni di una villa di proprietá privata.

Otre 500 uomini al giorno, tra polizia di Stato, Arma dei carabinieri, finanza, vigili del fuoco e polizia municipale sono stati messi a disposizione di un evento che è l’ennesimo sfregio alla salute dei territori e di chi li abita. 

Nonostante questo oggi abbiamo tentato di contestare la Ryder Cup, ma siamo stat3 immediatamente fermat3 all’uscita della metro, senza alcuna spiegazione, e tradott3 in commissariato. Di seguito riportiamo le motivazioni della contestazione.

IL VOSTRO LUSSO CI LASCIA A SECCO

Da mesi Roma si prepara, suo malgrado, ad ospitare la Ryder Cup, esempio concreto dell’abuso di risorse da parte delle elitè di questo paese che è causa primaria della devastante crisi ecologica che stiamo attraversando.

A sfregio della crisi idrica che attanaglia il Lazio e costringe molti territori circostanti Roma a vedersi tagliare l’acqua, un campo da golf come questo consuma in media 2000 metri cubi di acqua al giorno: si tratta del consumo medio di un paese di 8000 abitanti, una quantità che è sufficiente alla produzione di 2 tonnellate di grano.  Non solo: i pesticidi utilizzati per rendere soffice e libera da insetti l’erba su cui i ricchi campioni di golf camminano sono un grave fattore di inquinamento di falda con conseguenze devastanti sul territorio. I campi da golf sono verdi brillanti, ma sono talmente chimici e privi di ecosistemi che sarebbe più corretto definirli come dei giganteschi parcheggi. I campi da golf sottraggono terreni potenzialmente agricoli o forestali e possono interrompere naturali vie idrologiche, con rischi di inondazione e portano alla bonifica forzata di aree umide che bisognerebbe al contrario proteggere.

In Italia oggi ci sono 303 campi da golf come questo per un totale di circa 300.000 ettari di terra sottratti alla collettività e resi parchi divertimenti al servizio del tempo libero dei ricchi.

La Coppa Ryder vuole celebrare uno scempio di territorio e di risorse, e lo fa drenando ingenti finanziamenti pubblici: 60 milioni di euro regalati al tempo dal governo Renzi e ulteriori 97 milioni di euro in fidejussione, finalizzati per il rifacimento di un campo da golf nei terreni di una villa di proprietá privata. E’ ridicolo che ci dobbiamo vedere tolto il reddito di cittadinanza e crollare il sistema sanitario a causa dei tagli mentre soldi pubblici vengono generosamente erogati per il divertimento delle elite. Nel frattempo titoli di giornale gridano come la Ryder Cup faccia miracoli perché si conclude il cantiere infinito della Tiburtina: ennesima presa in giro dell’amministrazione comunale, che non si cura minimamente dell3 abitanti che vivono e lavorano in zona, ma si mobilita subito non appena si presentano situazioni ghiotte di guadagno per i privati come è la Ryder Cup. Inoltre, tutta la zona è paralizzata: per giungere qui sono state rifatte strade, bloccate metro, modificate infrastrutture di ogni genere. In una cittá dove la mobilitá é un problema strutturale, la spesa pubblica viene deviata a beneficiare interessi privati: con un budget complessivo di 157 milioni di euro, quella che sta svolgendosi è la piú costosa edizione nella storia della coppa. 

Le stime prospettano per la Ryder Cup un introito di mezzo miliardo di euro, eppure la manifestazione ancora una volta abusa di manodopera gratuita. 1200 “volontari con obbligatoria conoscenza dell’inglese” stanno adoperandosi in mansioni di ogni tipo “per un minimo di 6 ore al giorno” al fine di ridurre i costi e aumentare gli esorbitanti profitti della Famiglia Biagiotti, proprietaria del golf club.  La stessa sostiene poi, sui media, di essere una azienda che ha a cuore la sostenibilitá e che supporta il restauro di antichitá romane.

Questo scempio sociale economico e ecologico avviene con il pieno avvallo della classe politica locale e nazionale che ha sostenuto durante gli ultimi cinque anni la costruzione di questa manifestazione a prescindere da chi fosse al governo. 

Siamo qui perché la gestione del bene idrico diventa una linea di demarcazione attraverso la quale si accentuano la disparità di classe e l’ingiustizia sociale. Disporre di acqua in quantità e qualità maggiori diviene obiettivo primario della classe dominante, mentre le ripercussioni sociali, sanitarie e umane sono sempre più gravi per chi invece di quel bene non può disporre in quantitativi minimi vitali.

La messa a profitto e l’estrazione incontrollata dell’acqua si concretizzano nel suo utilizzo in grandi quantità per alimentare grandi opere inutili e dannose -dal TAV agli inceneritori- e nel suo spreco per il lusso di campi da golf come questo. Difendere l’acqua come bene comune da ridistribuire e lottare per una sua gestione comunitaria ed ecologica diventa pertanto oggi più che mai una forma di lotta anticapitalista ed ecologista al tempo stesso.

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Da Sud a Nord – Voci per la giustizia climatica

Incontro con compagnx da Honduras, Messico, Usa
Moderano L.E.A. Berta Cáceres, Osservatorio Repressione

Durante la primavera del 2023, in Messico una carovana di circa 200 persone in resistenza e lotta ha attraversato i 7 stati del Sud/SudEst del paese, interessati dai due megaprogetti di devastazione del governo Obrador: il Corredor Interoceánico, progetto di sviluppo di una grande piattaforma logistica di collegamento tra oceano Atlantico e oceano Pacifico, e il Tren (mal chiamato) Maya, linea ferroviaria per collegare Chiapas, Tabasco, Campeche, Yucatán y Quintana Roo a scopo di trasporto merci e, in parte minore, passeggerx (turistx).

FuturosIndigenas riunisce rappresentanti di piú di 20 popoli indigeni del Centro america (Milpamerica) che si organizzano per far fronte all’emergenza climatica, “per riforestare le menti, per indigenizzare i cuori”, attraverso la comunicazione e la creazione di narrative in difesa della vita. Nella consapevolezza di come la catastrofe climatica attuale sia il sintomo di una malattia che è la colonizzazione, che prende la forma di un progresso distruttivo per le comunitá, FuturosIndigenas si mobilita per difendere i territori, i diversi modi di essere ed esistere nel mondo e per difendere la vita.

In Honduras, è sorto un collettivo comunitario e di quartiere che afroindigene, diverse, dissidenti sessuali, antirazziste e contro ogni forma di violenza che si organizzano per resistere insieme alle continue minacce ed oppressioni.

Ad Atlanta, mentre la popolazione protesta a gran voce contro le interminabili violenze della polizia, si progetta di trasformare 300 acri di foresta nel più grande centro di addestramento per le forze dell’ordine. Allora la popolazione si mobilita in un movimento autonomo, vasto e decentralizzato di resistenza a cui si uniscono attivistx da ogni parte degli stati uniti e del mondo, continuando a lottare nonostante la costante repressione.

Questi percorsi di resistenza alla devastazione ambientale attuata dal capitalismo fossile all’insegna di un progresso che favorisce sempre le stesse élite, cercando di distruggere tutto ciò che incrocia sul suo cammino, risuonano con le nostre storie e con le nostre lotte, e con quelle che vengono portate avanti con determinazione in varie parti del mondo. Per questo è importante incontrarci e continuare a immaginare insieme un altro mondo possibile.

Dal 4 all’11 ottobre alcunx compagnx che hanno costruito e attraversano questi percorsi, saranno in Italia per condividere le loro esperienze con tutte le realtà, collettive, persone singole che abbiano voglia di incontrarsi, confrontarsi, immaginare insieme come continuare a resistere alla devastazione che avanza. Saremo a Bari (4 ottobre), Taranto (5 ottobre), Napoli (6 e 7 ottobre), Roma (8 e 9 ottobre) e Bologna (10 ottobre) e vorremmo costruire ognuno di questi momenti insieme, come momenti di scambio e d’incontro. Il giro si concluderá con la partecipazione dellx delegatx al World Congress for Climate Justice che si terrá a Milano dal 12 al 15 ottobre.

A Roma ci incontreremo l’8 ottobre al Lago Bullicante Ex-Snia alle ore 16:00, per riportare le esperienze di lotta dellx compagnx e permettere il confronto con tutte le realtà locali che si battono per la difesa dei territori e la giustizia sociale e climatica.

Saranno presenti le seguenti realtà:

Defend Atlanta Forest

Stop cop city

Futur@s indigenas

Asemblea de pueblos indigenas del istmo en defensa de la tierra y el territorio (APIIDTT)

Milpamerica resiste

Sos cenotes

Red de resistencia sur/sureste

De pueblo y Barrio

 

 

 

 

Per prendere parte all’organizzazione di una o piú tappe o per domande (mettere in copia entrambe le mail)

floreando.andos@gmail.com +39 3471599370 (whatsapp/telegram/signal)

alpaka@subvertising.org +1 916 7922965 (whatsapp/telegram/signal)

Per restare aggiornatx con materiali, articoli, informazioni sugli eventi

https://t.me/vociperlagiustiziaclimatica

 

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Giù le mani dai santuari! Presidi e mobilitazioni contro i massacri

Riceviamo e pubblichiamo il resoconto delle uccisioni avvenute la scorsa settimana al santuario per animali Cuori Liberi (Pavia) e le mobilitazioni che avranno luogo questa settimana a Pavia e Milano contro i massacri verso gli animali liberati.

La scusa da parte di polizia e celere, con la collaborazione dei veterinari, per aggredire il santuario e uccidere i maiali, è stato lo spauracchio della peste suina. Sappiamo però che gli unici interessi che vengono tutelati in questi casi sono quelli degli allevamenti intensivi dove nascono questi focolai -non pericolosi per gli animali umani-, che nascono a causa delle condizioni in cui gli animali non umani versano: turturati e stipati in spazi angusti, diventano vettore privilegiato della diffusione di epidemie. Come abbiamo già sostenuto, il problema in questi casi non sono i santuari e i rifugi per animali liberati, tutto il contrario: sono gli allevamenti intensivi e gli interessi milionari che li tengono in piedi a spese non solo degli animali, ma anche della salute umana. Ricordiamo, infatti, che in Lombardia gli allevamenti intensivi causano fino al 50% dell’inquinamento dell’aria da PM2,5, rendendo la regione una delle più inquinate d’Europa e causando un danno enorme alla salute di umani, non umani e territori.

Solidarizziamo con la rete dei santuari per le violenze subite e rilanciamo i prossimi appuntamenti nella speranza che fronti di lotta sempre più ampi possano prendere piede contro i massacri quotidiani che avvengono dentro e fuori gli allevamenti.


𝐆𝐈𝐔‌ 𝐋𝐄 𝐌𝐀𝐍𝐈 𝐃𝐀𝐈 𝐒𝐀𝐍𝐓𝐔𝐀𝐑𝐈
Ci vediamo
📍𝐌𝐄𝐑𝐂𝐎𝐋𝐄𝐃𝐈 𝟐𝟕 𝐒𝐄𝐓𝐓𝐄𝐌𝐁𝐑𝐄 𝐨𝐫𝐞 𝟖:𝟎𝟎
alla sede di ATS Pavia
via Indipendenza, 3
𝐏𝐑𝐄𝐒𝐈𝐃𝐈𝐎

📍𝐒𝐀𝐁𝐀𝐓𝐎 𝟕 𝐎𝐓𝐓𝐎𝐁𝐑𝐄 𝐨𝐫𝐞 𝟏𝟒
Milano (dettagli nei prossimi giorni)
𝐌𝐎𝐁𝐈𝐋𝐈𝐓𝐀𝐙𝐈𝐎𝐍𝐄 𝐍𝐀𝐙𝐈𝐎𝐍𝐀𝐋𝐄
da Pressenza

I maiali di Cuori Liberi: reagire al trauma politico

E’ molto difficile scrivere, praticamente a caldo, dopo quanto successo, il 20 settembre, a Sairano, in provincia di Pavia. Da due settimane pendeva sul Progetto Cuori Liberi, un santuario per animali sottratti allo sfruttamento, un’ordinanza di abbattimento dei maiali presenti; attivistə da tutto il centro-nord Italia presidiavano giorno e notte la zona. Avevamo già respinto un tentativo di eseguire l’ordinanza, il venerdì precedente, incatenandoci ai cancelli del rifugio, ma questa volta è arrivata in forze la celere, decisa a sgomberare il posto per consentire ai veterinari dell’AST di eseguire la sentenza.

Per elaborare, almeno parzialmente, questo trauma, non posso che fare uno sforzo di ricostruzione della vicenda e provare ad articolare alcune considerazioni, con la lucidità che le difficili circostanze consentiranno. Perché questa ordinanza, innanzitutto? L’antefatto è che la Peste Suina Africana (PSA) è arrivata, come si temeva da tempo, negli allevamenti intensivi, per la precisione nella zona di Zinasco, dove la concentrazione di maiali è impressionante: 2-300 mila in una porzione della provincia di Pavia, oltre 4 milioni in Lombardia (la metà dei maiali allevati in Italia). La PSA è una malattia non trasmissibile all’uomo, ma contagiosissima e letale per i suidi (maiali e cinghiali). L’Unione Europea e il nostro paese si sono mossi per contrastarla con una vera e propria dichiarazione di guerra agli animali selvatici, sguinzagliando le associazioni venatorie per decimare i cinghiali nei boschi, e arrivando a firmare decreti che prevedono l’uso dell’esercito a fianco dei cacciatori. Il tutto, evidentemente, per salvaguardare gli allevamenti intensivi, vale a dire un settore strategico che è fondato su un’atroce e costante violenza sui suoi prigionieri e su un impatto ambientale ormai innegabile. E’ la stessa zootecnia, in realtà, ad essere responsabile della diffusione della PSA nel pavese, una zona in cui i campi sono continuamente cosparsi di liquami provenienti dall’industria suinicola e in cui la movimentazione di animali macellati o destinati al macello è quotidiana.

La soluzione delle istituzioni è quella di circoscrivere i focolai emersi dall’inizio di agosto abbattendo tutti i maiali delle aziende in cui sono stati riscontrati dei casi. Finora, oltre 30mila uccisioni, con metodi che vengono resi noti grazie a un’investigazione dell’associazione Essere Animali: container stipati di maiali e usati come camere a gas, con una serie di inquietanti violazioni delle norme di biosicurezza che dovrebbero contenere i focolai. In questo contesto, in cui tutti i protocolli di emergenza si attivano per difendere un settore mortifero e deleterio per il disastro climatico, la PSA arriva, purtroppo, nell’unico luogo della zona in cui i maiali vivono senza essere ammassati e, soprattutto, non sono lì per essere sfruttati. Il rifugio “Cuori Liberi”, infatti, come tanti della Rete dei Santuari di Animali Liberi e altri ancora (come IppoasiAlma LibreGrugno Clandestino), ospita animali di varie specie sottratti al circuito dell’industria della carne, del latte e delle uova. I maiali che vivono nella struttura non sono allevati: sono oggetto di cura. Quando si ammalano, vengono curati e, nei casi estremi, accompagnati alla morte circondati dall’affetto e dalle attenzioni dei propri cari.

La realtà dei rifugi/santuari italiani aveva di recente festeggiato una vittoria non indifferente, il riconoscimento giuridico. Con questo passo fondamentale, viene riconosciuta la differenza dagli allevamenti e dalle loro logiche produttive: nei rifugi, ora, gli animali non sono più formalmente “DPA”, cioè destinati alla produzione alimentare, ma sono in qualche modo equiparati ad animali d’affezione. E, vedendo il rapporto fra gli umani che gestiscono Cuori Liberi e i non umani che ci vivono, la situazione non sembra in effetti molto diversa dalla relazione che molti umani intrattengono con i “propri” cani e gatti (o meglio: a quelle, fra le relazioni fra umani e animali domestici, che riescono ad essere più genuine e paritarie).

Ma questo riconoscimento, nel pieno di un’emergenza sanitaria, sembra passare in secondo piano. La Regione Lombardia ordina l’abbattimento di tutti gli ospiti del rifugio, sia quelli malati che quelli sani. Ci mobilitiamo subito, presidiando i dintorni giorno e notte. Ogni tentativo di negoziazione o di risoluzione legale sembra fallire. Dopo una settimana si presentano per abbattere i maiali, ma trovano le persone incatenate ai cancelli e decine di attivistə che accorrono a portare la propria solidarietà all’esterno. Passa qualche ora e se ne vanno. Tornano in forze il 20 settembre, e non si fanno problemi a sgomberare il blocco con i manganelli e i tirapugni. Diversə fermatə, diversə feritə, e soprattutto accade quello che temevamo. Il cancello, bloccato anche da alcuni trattori, viene aperto e i veterinari dell’AST possono entrare a uccidere i 9 maiali sopravvissuti alla peste, perlopiù ancora sani e senza sintomi. Uccisi praticamente davanti ai nostri occhi mentre lo stato sfoggia tutta la sua forza per domare la rabbia che sta esplodendo. E, soprattutto, uccisi davanti ai loro familiari umani. Alcuni agenti ridacchiano, mentre noi piangiamo. Una veterinaria ride. Caricano i corpi senza vita sul camion davanti alla folla. Nel frattempo, il solito repertorio di insulti sessisti alle ragazze, di offese abiliste a chi resiste. Una crudele lucidità nella gestione dello sgombero, in cui le risate colpiscono più forte dei manganelli. Pur avendo vissuto situazioni di violenza poliziesca più efferata, nessuna di esse è stata crudele come veder trascinare via delle persone a cui rimaneva solo il proprio corpo per proteggere i maiali condannati a morte.

Si canta “Bella ciao”, forse con un amaro desiderio di continuità con le storie di resistenza umana riconosciute e celebrate da una sinistra ancora troppo antropocentrica: una continuità che ci piacerebbe ma che purtroppo non c’è, se non nei nostri cuori, perché qui ci sono solo antispecistə, come sempre. Una manciata di persone un po’ matte. E’ un momento di lutto, ma anche di rabbia. Dopo “Bella ciao” è il momento di “Tout le monde déteste la police”: qui la continuità forse è più reale, ce la offrono loro su un piatto d’argento, respingendoci con i loro scudi, portando via gente a caso, impedendo all’ambulanza di passare per soccorrere una compagna, identificando e intimidendo le attiviste al pronto soccorso. Se ne vanno dopo aver violato in tutti i modi possibili le norme di biosicurezza in nome delle quali erano lì, mentre noi facciamo di tutto per non diffondere questa malattia. Piangiamo e ci abbracciamo.

E’ uno shock. Lo è stato fin dal primo momento, perché quell’ordinanza era già un precedente pericoloso. Ma lo è ancora di più ora che è stata eseguita. Possono entrare in un rifugio e uccidere chi ci vive. Solo la lotta, solo i nostri corpi possono impedirlo, e stavolta non sono bastati. Quando sarà la prossima volta? Vorrei comprendere questo trauma che ci ha paralizzatə. Non c’è solo la strage davanti ai nostri occhi. Una compagna mi dice che il nostro movimento è “naturalmente” più radicale, che “quando noi perdiamo ammazzano qualcuno”. E’ vero, ed è per questo che eravamo dispostə a tutto. Ma inizio a riflettere sul fatto che c’è dell’altro.

Si tratta di un trauma tutto liberale, uno schiaffo alle nostre convinzioni sui diritti minimi in democrazia. Nella teoria, sappiamo bene che non è come ci raccontano: lo stato liberale non garantisce davvero, sempre e comunque, delle libertà formali come quella di non avere la polizia in casa. Sappiamo che la democrazia, all’occorrenza, diventa rapidamente fascismo. Ma sotto sotto abbiamo interiorizzato che, almeno se hai il privilegio della pelle bianca e la cittadinanza italiana, ci sono dei limiti. Vederli superati in pochi giorni è uno shock. Per certi versi, uno shock simile all’inizio della pandemia quando – al di là del giudizio di merito che si vuole dare sulle misure governative – ci siamo trovatə improvvisamente l’esercito per strada e la “sacra” libertà di circolazione (sacra soltanto per i cittadini a pieno titolo, come dicevo) è stata messa da parte. Il vero volto dello stato si vede in certi casi, e come antispecistə dovremmo saperlo bene.

Ora però è dichiarato: ecco a che cosa sono disposti per salvaguardare un settore economico insostenibile. Possono entrare nelle case private e ammazzare chi ci vive. Il rifugio, infatti, è più una casa privata che un luogo pubblico. Il rifugio è una famiglia multispecie. E il paragone con gli animali domestici (“prima o poi verranno a uccidere i cani nelle case”), che finora usavamo come espediente retorico, non è più così fantasioso. Altro elemento di questo trauma politico: non ci sono luoghi sicuri. Questo avevamo sempre pensato dei rifugi/santuari: luoghi sicuri, oasi di pace per rifugiati che recano impresse nel corpo le ferite di un passato di schiavitù. Quale sarà il prossimo luogo sicuro che si rivelerà violabile? Come risponderemo?

Mi chiedo incessantemente come abbiamo risposto. Se abbiamo fatto abbastanza, quali sono i rapporti di forza, che cosa significa questa mobilitazione emergenziale. Da tempo, in effetti, il movimento antispecista produce soprattutto risposte ad emergenze. Nel farlo, le politicizza e mette a nudo le contraddizioni di un sistema produttivo antropocentrico, neocoloniale, estrattivista. Ma resta nell’emergenza. A cui risponde con una determinazione e una disperazione che il nemico non riesce del tutto a comprendere, il che è un bene. E lo fa sparigliando le carte, per certi aspetti. Cito due elementi che mi hanno colpito in questo senso. Il primo è il protagonismo politico dei rifugi/santuari, che anni fa erano, per il movimento, luoghi deputati esclusivamente alla cura degli animali salvati, magari dal “movimento che conta” (le associazioni, le campagne contro la vivisezione o le pellicce, l’Animal Liberation Front). Non ci si aspettava prese di posizione, riflessioni, intersezionalità. Tutti elementi che oggi sono costitutivi di molti rifugi. Anzi, possiamo dire che il traino, il cuore pulsante dell’antispecismo, oggi, sono i rifugi. Il secondo è la coloritura di genere della mobilitazione. Per due settimane, la resistenza all’ATS e ai suoi sgherri è stata animata principalmente da compagne, e guidata da compagne. Forse questo ha sconcertato qualche maschietto cishet, ma viene da dire che era ora, in un ambiente in cui da sempre la componente femminile è maggioritaria, ma la leadership è maschile. La risposta immediata allo shock ha travolto anche la teoria antispecista, superata dagli eventi in un batter d’occhio. E, dunque, persone che credevano di essere divise da divergenze teoriche, si sono trovate affiatate e vicine in una disperata sorellanza. Grazie a chi c’era, ciascunə a modo suo. Ognunə è arrivato fin dove poteva, come è giusto che sia, ma alcune assenze sono state amare.

Certo però il lutto va elaborato e per elaborarlo c’è bisogno di lottare, non solo di rispondere agli attacchi ma di attaccare. E c’è bisogno di complici, soprattutto nei movimenti ecologisti che in alcuni settori hanno colto l’importanza di questa battaglia. Ancora una volta, come con il covid, il capitalismo specista genera malattie, le coltiva negli ammassamenti di corpi animali dove domina il profitto, e poi non le sa gestire, non le sa contenere, se non addossando colpe e oneri a chi non ha voce in capitolo: fasce vulnerabili, poverə, lavoratorə, cinghiali, maiali. Nella zona in cui sono stati abbattuti 30mila animali, i suini sono dieci volte tanti. Nella Pianura Padana, in certe ampie zone della Lombardia e dell’Emilia Romagna la popolazione animale negli allevamenti supera quella umana. E i campi intorno al rifugio Cuori Liberi, che ho imparato a conoscere nei giorni scorsi, sono letteralmente un inferno. I liquami, gli odori, i terreni devastati dagli agenti chimici e attorniati da campi di concentramento per maiali rimandano in continuazione ai nostri sensi un odore di morte che abbiamo imparato a disconoscere di fronte alla fettina di salame del supermercato cittadino.

Questo lutto ci accompagnerà, da oggi, in ogni lotta a venire.

Pumba, Dorothy, Ursula, Bartolomeo, Carolina, Mercoledì, Crusca, Spino, Crosta: scusate se non ce l’abbiamo fatta.

Puppy Riot – attivista antispecista anonimo presente alla protesta antispecista a Sairano del 20 settembre

 

* Per aggiornamenti sulle prossime mobilitazioni relative a questa vicenda, potete seguire i canali social della Rete dei Santuari di Animali Liberi.

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IL VOSTRO LUSSO CI LASCIA A SECCO

IL VOSTRO LUSSO CI LASCIA A SECCO

Siamo oggi entrat3 come animal3 assetat3 nel campo dell’Olgiata Golf Club di Roma, per denunciare un luogo che è simbolo storico di potere, ricchezza e di abuso della risorsa idrica. Abbiamo collocato piantine nelle buche del green e costruito un orto anticapitalista per riappropriarci simbolicamente di questo pezzo di terra.
Un campo da golf come questo consuma in media 2000 metri cubi di acqua al giorno, il consumo medio di un paese di 8000 abitanti, una quantità che è sufficiente alla produzione di 2 tonnellate di grano.
I campi da golf in prossimità delle coste aggravano i processi di salinizzazione delle falde acquifere.
I pesticidi utilizzati sono un ulteriore fattore di inquinamento di falda con conseguenze sulla flora e sulla fauna. I campi da golf, infine, sottraggono terreni potenzialmente agricoli o forestali -qui infatti vi era un parco prima della costruzione-, possono interrompere naturali vie idrologiche, con rischi di inondazione e portano alla bonifica forzata di aree umide che bisognerebbe al contrario proteggere.
Spesso i campi da golf sono visti come volano di turismo elitario e pertanto a volte finanziati anche dall’erario pubblico per le strutture ricettive.
In Italia oggi ci sono 303 campi da golf come questo per un totale di circa 300.000 ettari di terra sottratti alla collettività.

Siamo oggi in questa fortezza impenetrabile e protetta da security e telecamere, chiusa al mondo per difendere il suo privilegio, perché crediamo che il costo della crisi climatica ed ecosistemica che stiamo vivendo debba pagarlo chi l’ha provocata, quel 10% della popolazione mondiale che produce il 52% delle emissioni climalteranti con il suo consumo e la sua ricchezza.
Siamo qui perché la gestione del bene idrico diventa una linea di demarcazione attraverso la quale si accentuano la disparità di classe e l’ingiustizia sociale. Disporre di acqua in quantità e qualità maggiori diviene obiettivo primario della classe dominante, mentre le ripercussioni sociali, sanitarie e umane sono sempre più gravi per chi invece di quel bene non può disporre in quantitativi minimi vitali.
La messa a profitto e l’estrazione incontrollata dell’acqua si concretizzano nel suo utilizzo in grandi quantità per alimentare grandi opere inutili e dannose -dal TAV agli inceneritori- e nel suo spreco per il lusso di campi da golf come questo. Difendere l’acqua come bene comune da ridistribuire e lottare per una sua gestione comunitaria ed ecologica diventa pertanto oggi più che mai una forma di lotta anticapitalista ed ecologista al tempo stesso.

Davanti ad un governo fascista che incondizionatamente favorisce l’elìte economica, l’alternativa per noi è la lotta ecologista.

Che terra e acqua si sollevino contro l’estrattivismo capitalista.

Non dormirete sonni tranquilli

Roma Climate Strike