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Nasce la Laboratoria Ecologista Autogestita BERTA CÁCERES

¡Despertemos¡ ¡Despertemos Humanidad¡ Ya no hay tiempo.

Nuestras conciencias serán sacudidas por el hecho de solo estar contemplando la autodestrucción basada en la depredación capitalista, racista y patriarcal.”

Berta Cáceres

Nasce la Laboratoria Ecologista Autogestita BERTA CÁCERES, un nuovo fronte di lotta contro la violenza dell’eterocispatriarcato e del capitalismo. Uno spazio liberato, antifascista, sorella solidale dei tanti spazi autogestiti che animano questa città e che attraversano ora momenti di difficoltà. Uno spazio di socialità che vuole promuovere pratiche di lotta ecologista collettiva, che vuole costruire e praticare conflitto, un luogo per ospitare formazioni e momenti di condivisione, uno spazio per praticare agricoltura sostenibile e promuovere la mobilità attiva alternativa, uno spazio per riflettere e per agire intersecando l’ecologia alle lotte transfemministe e anticapitaliste di Roma e del mondo.

Nasce in un edificio pubblico, condannato dalla Regione Lazio alla vendita a beneficio di chi appartiene a una classe sociale privilegiata. Un edificio costruito in piena regola abusivista che oggi è liberato per diventare un luogo che chiunque può attraversare, per costruire rivoluzione ecologica e promuovere nuove resistenze. La Laboratoria Ecologista Autogestita BERTA CÁCERES nasce in un parco, la Caffarella, che una lunga storia di lotte sociali ha difeso dall’avidità della speculazione edilizia. Ci collochiamo a seguito di quelle lotte e le proseguiamo tutelando l’edificio e la natura come bene comune all’interno di questa città.

UNA LABORATORIA ECOLOGISTA…

La parola “transizione” ha fatto inizialmente parte del vocabolario istituzionale e della green economy, ma è ormai un termine usato anche in altri ambiti, diventando un concetto che emerge in modo quasi automatico quando si parla di ecologia. Transizione intesa come un processo politico, storico ed economico che non si configura come una rottura radicale e strutturale dei fattori che hanno causato la crisi ecologica. Piuttosto, promette l’assunzione di alcuni specifici accorgimenti “tecnici” che permetterebbero cambiamenti in grado sì di recare beneficio ma, nello stesso tempo, di non ledere gli interessi economici delle multinazionali e gli interessi politici dei governi.

Critichiamo quindi questo concetto e rivendichiamo con decisione la necessità di una rottura radicale e strutturale del sistema capitalistico e dei sistemi politici che continuano a infliggere danni irreparabili alla salute dell’ambiente, degli animali non umani e delle persone. La lentezza e l’innocuità della loro transizione, che rimanda le soluzioni a tempi dilatati e burocrazie tecno-scientifiche, sta in vita solo attraverso il continuo silenziamento di una catastrofe in corso. Occorre ribadire in modo fermo e radicale che non sono i tempi dei giochi di potere dei governi, né i tempi di riconversione delle multinazionali, a dover dettare l’agenda dell’ecologia, ma sono i tempi della salute, dell’ambiente e della giustizia sociale. Per questo motivo, la risposta non potrà essere nessuna “transizione”, ma solo una rivoluzione ecologica.

L’inadeguatezza delle misure istituzionali è sempre più evidente, e la spartizione affarista dei fondi PNRR ne è una ulteriore dimensione. Eppure la catastrofe ecologica va avanti sotto gli occhi di tutti, mentre le élites mondiali decidono di non decidere e persistono in vani rinvii e mediazioni a ogni conferenza ONU sul clima. Al tempo stesso, le scelte scellerate

dell’Unione Europea definiscono “green” fonti energetiche dannosissime per il clima (gas) e per l’ambiente (nucleare).

…A ROMA

Se questo è il contesto internazionale e nazionale in cui ci troviamo, la città di Roma vive poi una situazione paradossale. Roma è una città “imbuto”, che consuma risorse e produce rifiuti, inquinamento atmosferico, inquinamento ambientale, pur essendo una città priva di un comparto industriale. In questa sua dimensione sui generis la città si sviluppa in senso predatorio, energivoro e impattante rispetto al territorio che la circonda. Roma richiede energia elettrica prodotta devastando l’area del porto di Civitavecchia, consuma quantità esorbitanti di acqua prosciugando fonti e corsi d’acqua di tutta la regione e scarica rifiuti “fuori dal raccordo”, ad esempio ai Castelli Romani, provocando danni ambientali di proporzione inestimabile. Una volta confluita in città, poi, l’acqua, anziché tutelata e protetta è mercificata da un’azienda, l’Acea, che ha come obiettivo prioritario la tutela dei profitti dei propri soci anziché del bene idrico, che viene disperso in una rete-colabrodo.

Lo scontro di classe, a Roma così come in tutte le grandi città, si manifesta in maniera evidentissima nella collocazione geografica e nella qualità dell’ambiente in cui si vive: cemento, cemento e solo cemento in periferia; immensi e degradati palazzi di dieci, dodici, quattordici piani in cui migliaia di lavoratrici e lavoratori tornano dopo ore di traffico, distanti chilometri dal centro cittadino riservato alla Roma bene.

Proprio in questo contesto di violenza strutturale nei confronti dell’ambiente e delle persone ribadiamo che non c’è lotta ecologista senza lotta di classe e viceversa.

Davanti a questo scenario, in questi anni non sono mai mancate e non mancano le voci critiche degli spazi occupati ed autogestiti. Infatti, questi spazi non rappresentano solo dei luoghi recuperati, ma esperienze politiche e punti di riferimento nei territori, propulsori di alternative insieme ideali e concrete. Qualche anno fa, a tal proposito, la rete per il diritto alla città scriveva: “In quest’ottica, gli spazi e le realtà che promuovono un’alterità, costruendo percorsi di inclusione e resistenza, vengono attaccati e sgomberati. Non è un problema che riguarda esclusivamente le proprietà dei singoli immobili o la destinazione che se ne vuole fare, ma il simbolo generale che rappresentano, realmente o potenzialmente. L’attacco generalizzato e prioritario è sicuramente agli spazi sociali occupati ma, più in generale, in una complessiva riduzione e compressione dell’agibilità politica e democratica che, prosaicamente si traduce, negli spazi decisionali sulla gestione della res publica.”

L’occupazione di uno spazio vuoto e abbandonato pone da subito il tema della proprietà. E lo fa innanzitutto nella contrapposizione tra interessi privati e pubblici: ma oltre a questo pone un tema all’interno della stessa proprietà e gestione pubblica, lì dove si costruiscono esperienze di autogestione ed autorganizzazione. Un nuovo modello decisionale dal basso che mette in discussione tanto gli interessi privati quanto il monopolio statuale e della delega verso l’alto.

Rivendicare, riappropriarsi e risignificare uno spazio ha la capacità non solo di un urlo ma di un vero e proprio discorso innovativo e alternativo in grado di accendere le conflittualità necessarie per la trasformazione del presente.

LIBERARE UNO SPAZIO PER LIBERARE E INTERSECARE LE LOTTE

Apriamo pertanto oggi un percorso cittadino che rivendichi la liberazione di uno spazio per renderlo fucina di lotta ecologista. Siamo consapevoli di iniziare un nuovo sentiero che può generare potenti intersezioni e sinergie con il resto dei movimenti cittadini e transnazionali.

L’ideologia estrattivista e neoliberista che giustifica e sottende l’esercizio dell’oppressione è la stessa che vuole il dominio sulla natura. Ed è un’ideologia coloniale. La gerarchia di potere imposta sugli altri animali e su tutti i corpi viventi è il paradigma di riferimento delle oppressioni anche tra gli animali umani. Un essere viene oggettivizzato e considerato a disposizione per i propri bisogni, la stessa radice alla base dell’idea di possesso e sfruttamento, di svalutazione, violenza, emarginazione quando una persona non viene giudicata utile, quando il suo contributo o la sua stessa esistenza diverge dalla classificazione utilitaristica. Le stesse dinamiche crudeli e mortifere avvengono in tutti i territori, attraverso l’estrazione incontrollata di materie prime, la gestione irresponsabile dell’acqua e di boschi e foreste, visti come mere risorse da sfruttare in chiave economica e di gestione del potere.

Il contributo alla lotta ecologista da parte del transfemminismo, ossia, di un femminismo queer trasversale alle lotte, inclusivo, un femminismo fatto di alleanze che non parte da un soggetto “donna” essenzializzato, è quello di osservare e analizzare l’esistente tenendo in considerazione le concrete differenze di vita e realtà di esperienze legate al genere, all’abilità, alla classe, alla cultura, all’etnia e alla specie.

Il meccanismo dell’oppressione e del sistema patriarcal-capitalista è quello di far credere alle popolazioni oppresse di vivere un destino ineluttabile.

Dedichiamo questo spazio a Berta Cáceres, donna, indigena, femminista, ecologista, uccisa da sicari del capitale estrattivista e coloniale sei anni fa. Con rispetto e ammirazione, lottiamo oggi perché Berta vive anche qui, con noi, anche ora!