In vista delle giornate di mobilitazione il 24, 25 e 25 marzo a Poitou contro il “sistema dei grandi bacini” di cui abbiamo già avuto modo di parlare qui, proponiamo la traduzione di un testo che riflette sul valore radicale di questa mobilitazione, pubblicato il 27 febbraio scorso qui. Buona lettura!
La siccità invernale che stiamo vivendo, e quindi l’impossibilità per le falde acquifere di ricostituirsi, riattualizzano il dibattito sui “grandi bacini” (méga-bassines). Chiamate dai loro ideatori “riserve di sostituzione”, questi immensi serbatoi d’acqua in plastica – di cui uno dei più grandi, quello di Sainte-Soline, dovrebbe estendersi per sedici ettari –avrebbero lo scopo di aiutare l’agricoltura a superare le siccità che stanno diventando di giorno in giorno più intense, raccogliendo l’acqua delle falde acquifere l’inverno per facilitare l’irrigazione d’estate.
Le controversie che queste suscitano si concentrano in generale sulla loro efficienza reale e sui possibili effetti secondari che provocherebbero. Se queste questioni tecniche sono importanti, non devono però mascherare questioni politiche più ampie: i bacini cristallizzano e rivelano un confronto tra mondi, tra desideri antagonisti su come comporre un mondo comune.
Dopo la metà del XX secolo, il numero di agricoltori e agricoltrici è diminuito drasticamente, passando dal 30% della popolazione lavoratrice nel 1955 a meno del 2% oggi, sebbene le dimensioni delle aziende agricole siano esplose e, ovviamente, anche il loro livello di meccanizzazione. Dietro un discorso di legittimazione che insisterebbe sulla necessità di nutrire la Francia, di esportare, e di liberare l’umanità dal peso gravoso del lavoro della terra, la rapida industrializzazione agricola è asservita agli interessi delle élite politiche ed economiche. La produzione agricola è diventata più prevedibile e redditizia per il capitale, mentre i costi di produzione sono diminuiti, consentendo così di spostare una parte del budget destinato al settore alimentare verso altre aree di consumo. L’agricoltura ha favorito lo sviluppo industriale fornendogli materie prime e offrendogli uno sbocco fondamentale grazie all’accelerazione della sua dipendenza da macchinari, pesticidi, fertilizzanti chimici e irrigazione.
A livello più profondo, la caduta libera del numero di fattorie, dei contadini e delle contadine espropriava le popolazioni dei mezzi e delle conoscenze che permettevano loro di assicurarsi forme di autonomia materiale, obbligandole, per sopravvivere, a vendere il loro tempo e le loro energie in un mercato del lavoro in forte espansione (1). Gli esseri umani, la terra, le piante, gli animali e gli ecosistemi rientrano tutti nella categoria delle risorse da sfruttare nel modo più efficiente possibile attraverso il potere tecnologico (2). L’agricoltura industriale è diventata così la chiave di volta di un rapporto con il mondo molto particolare, dove una piccolissima parte della popolazione è responsabile della produzione di cibo per tutti gli altri, e dove il dominio e lo sfruttamento del lavoro si esercitano attraverso l’effetto congiunto del mercato e l’espropriazione dei mezzi di sussistenza.
Le condizioni dell’accumulazione capitalistica, il desiderio di controllo e di emancipazione materiale delle classi dominanti e possidenti sono soddisfatte tanto più efficacemente quanto i mezzi di autonomia delle popolazioni sono deboli e, quindi, quando la loro dipendenza dal mercato è totale (3). Le diverse riforme pensionistiche e della previdenza sociale che conosciamo rientrano nella stessa logica, di passaggio dall’autorganizzazione al controllo statale e di mercato (4).
I grandi bacini trovano il loro significato compiuto solo in questa prospettiva più generale. Mirano a permettere il controllo tecnologico del ciclo dell’acqua per liberare la produzione dai suoi capricci, monopolizzando al contempo una risorsa vitale, destinata a diventare sempre più scarsa, il che finisce per scoraggiare i tentativi di ricostruire forme di autonomia territoriale dissidente. Di fronte al cambiamento climatico e ai movimenti di protesta, i loro promotori sperano di salvare per qualche anno in più l’agricoltura industriale e, quindi, le strutture di dipendenza e di dominio che essa contribuisce a sostenere – e di cui paradossalmente spesso l3 agricoltor3 sono le prime vittime.
L’opposizione ai grandi bacini, al contrario, spinge a delineare un mondo in cui l’agricoltura contadina è impiegata in modo esteso, ben oltre il ruolo a cui è confinata dal sistema attuale – una nicchia di mercato per alimentare la borghesia e una vetrina mediatica. Le attività agricole si intrecciano con altri usi della terra, coinvolgono sempre più abitanti e non sono più organizzate da norme distanti e favorevoli all’agroindustria, né tanto meno da imperativi economici, ma da decisioni collettive e territoriali.
Il paesaggio, ripiantato con siepi, scavato con fossati e stagni, si frammenta e si diversifica, tessendo nuove alleanze tra umani e non umani. Il “progresso” non consiste più nel sostituire tecnologicamente le dinamiche naturali, ma nel costruire una cooperazione pacifica con esse. I cambiamenti climatici e le siccità si affrontano con gli ecosistemi e non contro di essi, affidandosi più alla conoscenza situata che alla semplificazione gestionale.
Il recupero di forme di autonomia materiale a livello locale, in particolare attraverso la socializzazione del cibo, la riduzione della dipendenza dal mercato e l’allentamento della morsa economica, è essenziale per ricostruire un potere politico che possa incidere sulle strutture che organizzano la convivenza su scala nazionale ed europea. La delocalizzazione e la comunitarizzazione dei processi decisionali e delle attività di sussistenza pone le basi per un mondo ecologicamente sostenibile, dove le interrelazioni tra gli esseri umani e con gli abitanti non umani del territorio sono più dense, più intense e più inclini alla reciprocità.
È ovviamente semplicistico delimitare in questo modo lo spazio delle possibilità, ma ciò ci permette di misurare meglio la portata della posta in gioco intorno ai grandi bacini. Territorializzandosi, le lotte ecologiste e sociali riacquistano una dimensione fondamentale e primordiale: riguardano la terra, l’acqua, i modi di mangiare e di vivere. Si lasciano alle spalle lo status difensivo in cui sono sempre più confinate e ridisegnano le linee di conflitto al di là delle sole questioni economiche per includere i nostri modi collettivi di essere nel mondo. Questo chiarisce ciò che si tratta di affrontare e distruggere, nonché i modi per costruire nuove alleanze e nuove solidarietà tra contadinə, abitanti, naturalistə, movimenti ecologisti, movimenti sociali, per una svolta massiccia verso forme di agricoltura contadina organicamente mescolate con le specificità sociali, ecologiche e politiche degli ambienti di vita.
Note
1. L’Atelier paysan, Reprendre la terre aux machines,Paris, Editions du Seuil, 2021 ; Christophe Bonneuil, La «modernisation agricole» comme prise de terre par le capitalisme industriel, Les Terrestres, 2021, https://www.terrestres.org/2021/07/29/la-modernisation-agricole-comme-prise-de-terre-par-le-capitalisme-industriel/
2. Léna Balaud et Antoine Chopot, Nous ne sommes pas seuls, Editions du Seuil, 2021.
3. Aurélien Berlan, Terre et liberté, La Lenteur, 2021.
4. Nicolas Da Silva, La bataille de la Sécu, La Fabrique éditions, 2022.